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IL ROMANISTA Addio e dolore: ZZ come Fuffo e Herrera

Zeman

(M.Izzi) Partiamo da una domanda che mi ronza in testa: «È l’esonero più doloroso della storia della Roma?». Intendiamoci, stiamo sempre parlando di calcio e la parola dolore la usiamo con il beneficio d’inventario per non rischiare di sprofondare nel ridicolo. Ma se nella vicenda Zeman prendiamo in considerazione le speranze e l’entusiasmo con cui era stato salutato l’arrivo di questo tecnico, la considerazione non è affatto peregrina.

In realtà, l’addio a Zeman evoca altri due strappi fondamentali (benché con motivazioni diametralmente opposte e mi si perdoni la considerazione, con uomini di spessore diverso) nella storia della Roma: quello con Fulvio Bernardini e quello con Helenio Herrera.Nel giugno del 1949, Renato Sacerdoti e Meloni contattarono Fulvio Bernardini per consegnargli la guida della squadra. Bernardini incarnava il sogno di rivedere a distanza di tanti anni il risorgere della grande Roma testaccina di cui Fulvio aveva incarnato il vessillifero più grande. La tifoseria affrontò quel momento con un misto di gratitudine e tripudio. Il ritorno di Bernardini sembrava, anche psicologicamente, chiudere il periodo drammatico e tragico degli anni della guerra. Con l’Italia che si avviava a grandi passi verso la ricostruzione prima e il boom economico poi, l’avvento di “Fuffo” era, allo stesso tempo, il ritorno alla parte migliore del passato e la promessa di un futuro che sposava il nuovo e l’avvenire. Fulvio, che arrivò sulla scorta di un contratto che ricalcava il minimo sindacale: 175.000 lire, provò, sin da subito a mettere la propria impronta sulla campagna acquisti facendo ingaggiare Tre Re, Zecca, Merlin, Spartano, Bacci, Lucchesi, Cardarelli, Benedetti, Malaspina, il nazionale Arangelovich ed altri. Il risultato della campagna rafforzamenti, però, era tutt’altro che scontato e Fulvio chiese ed ottenne la promessa di poter sviluppare il suo programma di lavoro nell’arco di un triennio. Per ciò che riguarda la formula di gioco pretese un forte svecchiamento che passò anche attraverso l’adozione del sistema con relativa velocizzazione della manovra e apertura allo sfruttamento del gioco negli spazi liberi. Supportato da Bodini come allenatore in seconda, dal responsabile delle giovanili Brunella, dai preparatori Fornari e Riccioni, e dai massaggiatori Cerretti e Cesaroni, Bernardini iniziò il suo impervio cammino.

L’utopia bernardiniana, nonostante alcune luminose fiammate stentava a decollare e la Lupa si dibatteva nei bassifondi della classifica. La squadra, soprattutto nella persona del capitanoAndreoli, rimase sempre al fianco del proprio allenatore, eppure non mancarono alcune situazioni problematiche. C’era ad esempio da fare i conti con la gestione non facile del “Petisso” Pesaola, che molti anni più tardi, Bernardini ricordava così: «Il Petisso ha un passato quasi glorioso come giocatore della Roma. Personalmente l’ho avuto nella stagione 49/50 e ricordo che odiava due cose: 1) Gli allenamenti di mattina 2) Viaggiare a piedi od in autobus, stava tutto il giorno su un taxi. Gli piaceva dormire fino a tardi ed una volta che non venne all’ allenamento andai a trovarlo dove abitava, in Via Giulia in una stanzetta carina di una casa di tipo storico. Un tipo allegro e un po’ bohemien come lui poteva abitare solo in Via Giulia». In questo contesto così disastrato, l’epilogo, abbastanza scontato, anche se soffertissimo, fu quello dell’esonero. La lacerazione all’interno della società coinvolse anche la tifoseria che si schierò apertamente dalla parte di Fulvio, ma questa generosa mozione degli affetti rimase purtroppo improduttiva. Mentre Fulvio si avviò a proseguire la sua carriera da allenatore dimostrando di essere l’unico in grado di strappare, per ben due volte, lo scudetto ai “soliti noti”, il sogno di rivederlo in giallorosso fu destinato a rimanere una chimera. Prima Alvaro Marchini (in maniera estremamente concreta tanto che si consumò anche un incontro a casa Bernardini in cui l’accordo sembrò definitivamente raggiunto) e quindi Dino Viola (a dire il vero in modo del tutto programmatico, quasi a livello di auspicio), pensarono a riportarlo sulla panchina della Lupa, ma come detto, l’addio del 1950, rimase definitivo.

Da Bernardini, vero e proprio cuore di Roma, passiamo ad Helenio Herrera. Il suo arrivo nella capitale, a cavallo tra il passaggio di consegne tra la gestione (quantomeno per quello che riguarda lo stile di conduzione) di Franco Evangelisti e quella di Alvaro Marchini, suscitò un’ondata d’entusiasmo come raramente si era visto nell’ultimo decennio della storia romanista. Herrera sembrava il passaporto migliore per il passaggio dalla rometta senza ambizioni del piccolo cabotaggio, a una Roma “vincente” in Italia e in Europa. Quello che non si era in grado di realizzare con la programmazione e con l’adozione di un vero “piano industriale calcistico”, sarebbe insomma stato conquistato grazie al “Mago” e alle sue intuizioni istrioniche e sciamaniche. Le suggestioni date dal “Mago” Herrera, anche con la complicità della stampa che vide nell’ex tecnico dell’Inter un formidabile alleato per aumentare la tiratura, “imprigionò” in un sortilegio devastante il club.

Il puzzle iniziò ad andare in mille pezzi, frantumando anche la bacchetta magica di H.H., dopo una brutta sconfitta contro il Torino, nel gennaio 1971. Con sulle spalle un mortificante 4-0, Marchini si recò all’aeroporto per accogliere la squadra. Appena sceso dalle scalette Herrera investì il presidente evocando la sfortuna e chiamando in causa la “deconcentrazione” della squadra. Una riunione venne tenuta immediatamente in una saletta dell’ aeroporto di Fiumicino. Il giorno seguente i giornali titolarono ad otto colonne “denunciando” la volontà di Marchini di volersi sbarazzare del Mago. Ed effettivamente il presidente, anche in considerazione dell’oneroso contratto del tecnico, aveva maturato questa decisione. Inizialmente, comunque, come racconta lo stesso Marchini, scelse una strada intermedia: «Convocai l’allenatore nel mio ufficio e gli spiegai che non intendevo rinnovare il contratto fin da ora. Lo invitai ad occuparsi di più della squadra e se i risultati fossero stati soddisfacenti non avrei avuto nulla in contrario a riconfermarlo, purché la smettesse di crearmi difficoltà nei confronti dei tifosi e della stampa. Gli dissi inoltre, con molta chiarezza, che il nuovo eventuale contratto non sarebbe stato come il precedente, perché la Roma non poteva sobbarcarsi un onere tanto pesante».

Herrera per tutta risposta disse a Marchini che lui era squalificato sino al 30 aprile e che quindi non era: «il mio presidente … non può darmi ordini. Io ho con me tutti i tifosi. Sono io il più forte quindi stia bene attento». Marchini cacciò in malo modo il suo recalcitrante allenatore sancendo l’inizio di una vera e propria “guerra” intestina. Paradossalmente l’epilogo dello scontro arrivò dopo una vittoria … contro il Cagliari. La stessa squadra che in un match interno ha decretato la fine dell’avventura di Zeman, ha deciso anche il destino di Don Helenio. Dopo la vittoria maturata il 4 aprile 1971 con il gol di Cappellini, Herrera dichiarò che solo lui avrebbe potuto dare lo scudetto alla Roma. Nel 1942, infatti, secondo lui, solo con l’aiuto di Mussolini era stato possibile centrare quell’ambizioso obiettivo. Alvaro Marchini, davanti ad una tale, mostruosa, idiozia fece l’unica cosa che un presidente della Roma avrebbe potuto e dovuto fare. Convocò Herrera in sede e gli comunicò l’esonero che l’indomani venne ufficializzato anche davanti alla stampa dal Vicepresidente Dino Viola. Herrera concluse questo suo folle periodo dichiarando che Herrera aveva venduto i tre gioielli (Capello, Spinosi e Landini), per ordine di Berlinguer. Un altro paragone rispetto alla vicenda Zeman che si potrebbe imbastire è quello con l’esonero, durante il suo terzo mandato, di Nils Liedholm. Un tentativo che però lascia il tempo che trova, visto che il Barone, in quel periodo aveva ormai già speso le sue energie migliori e si arrese a quell’evento come ad una conseguenza ineluttabile.

Per Zeman il discorso è diverso e il colpo, estremamente duro, non sarà facile da assorbire. La Roma, però, nell’arco della sua storia, è sempre stata capace di ripartire, glielo impone la sua storia, i suoi tifosi, il suo nome.

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