(T.Cagnucci) – Oggi fa ancora più impressione pensare a quel 19 febbraio di sette anni fa. Altro che sette anni in Tibet. Erano da poco passate le 15 di domenica 19 febbraio 2006, Roma-Empoli stadio Olimpico, quando al sesto minuto e dodici secondi Francesco Totti si rompeva il piede sinstro a pochi mesi dal Mondiale per colpa di un intervento di Richard Vanigli. Quel Mondiale l’ha vinto, poi ha vinto coppe, scarpe d’oro, sfiorato scudetti, collezionato record, raggiunto e superato Meazza, Altafini, Boniperti, Mazzola, Rivera, Shingo Tamai, Dugarry, Batistuta eccetera eccetera… Sette anni sono passati e oggi Totti è in prima pagina dovunque. Ancora. Sempre. Sette anni dentro quel settimo minuto in cui sarebbe dovuto finire tutto mentre ancora oggi si celebra l’ennesima alba, l’ennesimo inizio. Oggi proprio oggi. Questo è il racconto di quel giorno che a guardarlo da qui, adesso, fa molto meno male, e, anzi, lascia il dolce sapore della rinascita. Di aver sconfitto, oggi come allora, le Juventus di tutto il mondo. Perché c’è sempre una Juventus fra noi e il sogno. Francesco Totti:«Dopo l’operazione alla caviglia i medici non potevano fare più niente, toccava a me. Facevo le stesse domande: ce la faccio o no? Non servivano a niente, ma mi facevano ricominciare… Cercavo di rubare sempre qualche giorno in più. Il momento peggiore era la notte perché non dormivo per la fascia stretta: ero diventato un metronotte. Pensavo a come e quando sarei potuto rientrare, se ero come prima… Mi sembravo matto perché parlavo da solo, ma in quei momenti se ti dai le risposte sbagliate vai a picco. Ce l’ho fatta».
Il Piccolo Principe non rinunciava mai a una domanda che aveva fatto. Questa è la storia che Antoine de Saint-Exupéry non ha mai scritto, questa storia racconta di come il Piccolo Principe s’è fatto uomo.(…) Di come un ragazzo è diventato bionico con il cuore. Questa è una storia alla rovescia perché arriva a difendere una placca, un particolare, quell’inserto meccanico nella caviglia ferita e spaccata a sangue, tenuta insieme da un cuore d’acciaio. Come Jeeg, Hiroshi corri ragazzo laggiù tra lampi di blu di una maglia dell’Empoli intravista con la coda dell’occhio, e quella campana di bronzo che il destino, un padre, ti ha innestato controvoglia (…) Questa storia è alla rovescia, parte dalla fine perché non se ne conosce l’inizio: a 14 anni Francesco Totti si rompe il menisco in un derby. (…). Questa storia parte da quelle paure lontane di non diventare mai campione del mondo di un ragazzino. Il sogno. (…). È lì che Francesco ha imparato a difenderlo come quella placca e quelle viti che tengono insieme tibia e perone e tutti quei 15 anni che passano e arrivano al 19 febbraio 2006. Mancava cosi poco tempo alla Coppa del Mondo. Forse l’ha vinta proprio quel giorno. Quella giornata era diversa. (…) Il 19 febbraio a Roma tornava ferito da una mostra a Milano il più importante dipinto custodito a Roma del Caravaggio, La Madonna dei Pellegrini, uno dei quadri più cari ai romani, sfregiato. Il danno al piede del fedele. Quello sinistro, all’altezza del perone. Il dipinto proprio quel giorno viene ricollocato nella chiesa di Sant’Agostino e a sera restaurato con una pecetta. Una piccola placca sulla storia dell’arte. Non s’era mai visto prima nemmeno questo.
Stava accadendo qualcosa quel giorno: in questa storia anche il Dottore parla come un antico profeta. Solo così si può credere alla costruzione di un calciatore bionico con il cuore. Mario Brozzi, il dottore:«Sì, noi lo sapevamo che sarebbe successo, che Totti si sarebbe infortunato seriamente…». (…) A questo punto la storia diventa cronaca di quelle incredibili 5 ore, scarse, che hanno trasformato il Calciatore, fermato Roma, cambiato il corso degli eventi. Ma sempre per l’umanità contro la regina Himika. La storia è in un gioco: la partita. Al primo fallo glielo dico: «”Mi fai male, lo sai come sto?”. Dopo due minuti un altro intervento del genere, penso che lo stia facendo apposta e gli dico pure questo. Poi al terzo fallo, al crac, non ho più avuto la forza di dirgli niente: ho sentito dolore appena ricevuto il calcio, la sensazione che la caviglia si fosse spezzata. Ho sentito l’allungamento di tutto, l’ho presa in mano e non sentivo più dolore».
È il minuto 6 e 12 secondi. Ore 15.07. Domenica. È solo Totti in quel momento dentro uno stadio immediatamente muto. È in questo momento che il record eguagliato di vittorie si bagna di maledizione, destinato ad essere superato. Arriva il Dottore: «Appena arrivato Francesco mi ha detto: “me so’ rotto”. E io: “smettila”. Quando gli ho tolto la fascia, perché ogni calciatore si benda i piedi, ho capito tutto: il piede è crollato, la caviglia collassata. (…) Doveva andare via a Villa Stuart subito. Via sulla macchinetta verso l’ambulanza. “Ma tu vieni sì? Se non arrivi non me faccio tocca’”. “Arrivo”. Arrivo». Corri ragazzo laggiù. E attento alle risposte. Il Piccolo Principe non rinunciava mai a una domanda che aveva fatto. Arriverà alle 17.38 Brozzi, quando ormai si starà solo aspettando quella placca d’acciaio per l’operazione. La storia s’è messa in moto col destino e una telefonata quando il Dottore avverte dal campo il Direttore a casa: «Bruno, Francesco s’è fatto male di brutto».
Anche in questa storia di Bruno ce n’è sempre uno. Turchetta avverte la sua clinica che ha una convenzione H24 con la Roma: qualsiasi cosa succeda in qualsiasi momento a un calciatore della Roma scatta il protocollo. Questo: «Ho chiamato Villa Stuart, ho avvertito la radiologia che ha chiamato il Professor Mariani… In cinque minuti eravamo in clinica». Lo stesso tempo ci mette Totti. Corri ragazzo laggiù. Adesso è dentro l’ambulanza con Vito Scala e con l’altro Dottore della Roma. Stefano Del Signore: «(…) Lui non capiva. “Ma perché se mi sono fatto male non sento niente?”. Quello era il segno, quello era preoccupante». Colpite le fibre nervose: qui è il cuore che comincia a diventare d’acciaio. «Ma perché se mi sono fatto male non sento niente?».
Il Piccolo Principe non rinunciava mai a una domanda che aveva fatto.Dietro l’ambulanza, c’è l’auto di Mamma Fiorella (che una notte, il 9 luglio, scriverà una lettera). La famiglia del Calciatore è stata avvertita telefonicamente e immediatamente da Vito Scala. (…) Stanno andando a Villa Stuart anche Ilary e Cristian, che non va più all’aeroporto per Sanremo ma a via Trionfale 5952. Monte Mario ai piedi dell’Olimpo, casa di cura per Caravaggio. «Ilary stava andando a Fiumicino con Cristian. Doveva preparare il Festival, due settimane di lavoro. Così avevamo deciso di tenere il bambino una settimana per ciascuno. Ma strada facendo sentiva la partita e ha capito che m’ero fatto male. Ha chiamato Giancarlo, ha chiamato mia mamma, le hanno detto che mi stavano portando a Villa Stuart e così è venuta in clinica con Cristian». (…). Si stanno muovendo tutti mentre la Roma segna (15.15). Si sta muovendo anche il Professore. Il protocollo è scattato, da Villa Stuart l’hanno chiamato. Il Professore: «(…)Prima di quel giorno ero un nome, non una faccia».
Stanno quasi tutti lì. Brozzi nello spogliatoio avverte Spalletti, l’Allenatore, e la squadra. «C’erano silenzi e volti bassi. Spalletti era il più preoccupato di tutti. I giocatori non parlavano. Uno ha detto: vediamo di vincerla per il Capitano». (…) Mariani parla con Totti: «Ti devi operare». «Ma se lo faccio vado ai Mondiali?». Il Piccolo Principe non rinunciava mai a una domanda che aveva fatto e il Professore lo sa.«Al 99,99%, sì ti do la mia parola». Allora sì. Per forza. Per forza e per amore. È il momento più difficile, servono le parole di Vito, l’amico: «Avevo solo uno scopo, far passare meno tempo possibile fra l’incidente e l’intervento (…) E poi io gli ho detto anche un’altra cosa: “Se molli non vali un cazzo, come uomo e come giocatore”». Una spintonata, un altro modo per dirgli: corri ragazzo laggiù. Perché nella vita è solo nel momento più duro che capisci che ce la puoi fare. Scollini. È solo dopo aver perso la partita che la puoi rigiocare. È solo perché sei stato fermo che potrai camminare. Dopo le 16.30 sale Ilary con Cristian, Totti è al secondo piano, stanza 38, al piano terra aveva fatto le lastre, poi la Tac e la risonanza magnetica, al terzo piano si dovrà operare. È già tutto pronto, tranne la placca d’acciaio. Il cuore è lì. Totti vede Cristian.
E piange. Francesco: «Appena l’ho visto sono scoppiato a piangere come un ragazzino. M’ha fatto capire tante cose tenerlo in braccio in quel momento». Quando il campione era bambino certe placche non c’erano, certi giocatori non sarebbero rientrati. E non sono rientrati. (…) Oggi Francesco Rocca e Marco van Basten avrebbero potuto sfidarsi. Ma chi ce l’avrebbe fatta a giocare un Mondiale dopo tre mesi quando da poco più di un’ora t’hanno spaccato il perone in tre parti, lesionato i legamenti, rotto la caviglia? E poi quel Mondiale è da vincere, c’è il sogno di un bambino in ballo. Questo è il nostro piede sinistro. Bisognava farlo subito. Francesco. Vincere. Operare. Bisognava riparlare con Mariani, rifare sempre le stesse domande perché se ti dai la risposta sbagliata affondi. Il Piccolo Principe non rinunciava mai a una domanda che aveva fatto.«Professore ma se mi opero lo faccio il Mondiale?». «Sì, ma se lo facciamo subito». Il più presto possibile. L’intervento e il Mondiale. Sono la domanda e la risposta più importanti della storia dell’Arte. Perché in quest’altra storia infinita di talloni feriti che va dritto al racconto di Achille, l’istante, la velocità, l’immediatezza è ciò che riesce a mutare anche il mito.
Pier Paolo Mariani non appena ha messo la lastra sul lettore ha esclamato:«È da operare adesso!». È ora il momento della storia. Il Dottore, il Professore, il Direttore, lo raccontano insieme. È l’antico Coro della tragedia greca, ma stavolta può aiutare il protagonista. Edipo, che in greco significa piede gonfio (e nel mito originario era proprio il sinistro) non finirà accecato. I raggi X l’oracolo di Tebe non ce li aveva a disposizione. «Se avessimo aspettato solo qualche ora in più, Totti non avrebbe mai fatto i Mondiali. Dovevamo farlo subito». (…) Lo possiamo ricostruire. Per questo mancava una cosa. I materiali, la placca e le viti necessarie per saldare perone e tibia. Dal tipo di frattura Mariani ha deciso il materiale. «Chiamate, fate portare qui questo tipo di placca». Di un acciaio simile all’osso, ma malleabile. Una specie di serratura per finestre. (…) È adesso che c’è il capovolgimento, che Achille ferito al tallone non muore. No, Richard Vanigli non è Paride, ma un difensore dell’Empoli che ha pianto in sala stampa e ha già chiamato Francesco in clinica.
Tutti hanno chiamato Totti a Villa Stuart. (…) Porteranno laicamente oro, incenso e mirra, ma è il materiale che deve arrivare subito perché adesso c’è l’intervento. Il materiale è depositato dentro dei grandi magazzini. Ma dove? Dov’è nascosta la placca che cambierà il corso degli eventi, che può realizzare il sogno infortunato di un ragazzo? Quanto è lontana? Dove sta? Dove? A Formello. Sì, proprio a Formello. Nei grandi magazzini di Formello. Ecco dov’è finito il cavallo di Troia nel terzo millennio. Cantami o diva del Pelide Achille l’ira funesta… No. Totti, il Calciatore che sta per diventare bionico, più che arrabbiato, è determinato. Ha paura sì, ma degli aghi, non degli achei. (…) Totti ha gli occhi chiusi anche senza anestesia. C’è Chopin nell’aria perché Mariani non opera senza musica…
Gli mettono 33 punti, gli anni di questa crocifissione, con 11 viti, di cui una più lunga per tenere insieme tibia e perone e quella placca.La campana di bronzo di Hiroshi, sarà protetta per qualche tempo da un gambaletto ortopedico in neoprene e non con un’ingessatura per evitare l’ipertrofia del muscolo della coscia e in particolare del polpaccio. Totti apre gli occhi, quando si risveglia vede Cristian e Ilary, poi cinquemila tifosi della Roma che gli fanno festa a Trigoria, la Sud che fa magia, vincere la Roma, i compagni e l’allenatore con la sua maglia (…) Da questo momento Totti può tutto, perché è il calciatore bionico. E niente, se non ha cuore acciaio dentro. Lui ha scelto di diventare campione del mondo. «Dopo l’operazione i medici non potevano fare più niente, toccava a me… Cercavo di rubare sempre qualche giorno in più. Il momento peggiore era la notte… Pensavo a come e quando sarei potuto rientrare, se ero come prima… Mi sembravo matto perché parlavo da solo, ma… Ce l’ho fatta». Per questo si terrà la placca fino a quando giocherà a pallone, se non gli darà fastidio, se non si romperà (è un po’ più fragile di un osso). (…)
È che è diventato campione del Mondo con quella placca, in altri termini, solo così avrebbe potuto salvarlo il Mondo: diventando Jeeg. Togliersela sarebbe togliersi un po’ quel pezzo di vita in più che s’è ripreso. Questa storia racconta che non è mai finita veramente, che a 14 anni ti rompi il menisco, a 29 la caviglia e poco dopo raggiungi il sogno. Che forse per questo lo raggiungi. Che c’è sempre un cielo sopra Berlino veramente, perché c’è sempre un cielo sopra dovunque. Chiunque.E per raggiungerlo bisogna scendere, non salire, perché è laggiù che devi correre, dentro quel cuore acciaio: una placca arrivata da Formello.