Queste le parole di Picchio De Sisti, intervistato in occasione del suo settantesimo compleanno:
Come sono i suoi settant’anni?
«Curiosamente belli. E felici».
La sua vita?
«Un sogno».
Il suo domani?
«Lieto e sereno».
Cosa le manca? Cosa le è mancato?
«Niente, delle cose importanti. La salute è discreta, la famiglia fantastica. Questo primo bilancio si chiude positivamente. Ho lavorato giocando, quanti possono dirlo?».
Ha mai pensato a come sarebbero andati questi settant’anni senza il calcio?
«Avrei fatto il medico, o l’ingegnere. Era l’idea che avevo da ragazzino. Oppure avrei guidato il tram, come ha fatto mio padre per tutta la vita».
Qual è il regalo che vorrebbe?
«Ce l’ho già il regalo che voglio. E’ grandissimo: la mia famiglia. Per il resto ho tutto, il telefonino, il vestito buono, l’auto».
Ma non ci dirà che ha sempre la mitica Golf GTI grigia metallizzata stile anni Ottanta…
«No, dai. Adesso ho un’Audi. Da undici anni, però».
Oggi può dire in maniera compiuta cosa le ha dato il calcio.
«Ero un bambinotto di borgata, un ragazzino semplice. Il calcio mi ha fatto crescere, conoscere le persone, girare il mondo. Ma quell’educazione di parrocchia l’ho sempre portata con me. Il rispetto per tutti è il primo valore».
Quanti anni fa ha capito che avrebbe fatto il calciatore?
«Più o meno sessant’anni fa, in parrocchia. Quando gli amici più grandi facevano le squadre, io ero sempre una prima scelta. Mi dicevo: “Se prendono me, che sono così piccolo, vuol dire che qualcosa posso fare”».
A settant’anni si perdono tutti i freni inibitori. Cosa le va di dire?
«Niente di sconvolgente, solo che ho avuto tante cose belle dalla vita, soprattutto il bene della gente. E che ho trovato sempre un rifugio tranquillo quando c’erano i momenti di sconforto: la mia famiglia, la mia gente».
Nel calcio la sua gioia più grande qual è stata?
«L’esordio con la Roma a Udine, lo scudetto con la Fiorentina e ItaliaGermania4a3».
Se c’è una partita che ogni italiano avrebbe voluto giocare è quella, ItaliaGermania4a3.
«Quando c’è qualcuno che mi rompe le scatole con le discussioni sul calcio di ieri e il calcio di oggi, lo metto zitto dicendogli: “Aho, ma tu c’eri all’Atzeca a giocare contro la Germania?“. Io sì c’ero e nessuno mi toglierà mai quella partita. Il mese scorso con mio figlio Marco sono andato a Bari, quartiere San Pio, per vedere la Under 19 contro la Germania. Nello stadio non si poteva entrare perché c’erano le tribune pericolanti, ma un tifoso del posto mi ha riconosciuto e mi ha detto: “Ma non fanno entrare nemmeno lei? E’ impossibile”. E’ andato dagli organizzatori urlando: “Ma vi ricordate Italia-Germania, quella vera? Questo signore era in campo e se c’è uno che deve vedere questa partita è lui”. Così sono entrato e ho visto Italia-Germania Under 19».
L’amarezza, allora.
«Brasile-Italia 4-1. Arrivare fin lì e tornare a casa. E’ stato brutto davvero. Ma soprattutto il mio nome in mezzo alla storia del doping nel calcio degli anni Settanta. Non c’entravo niente. L’inchiesta è finita, ho ritirato gli atti in tribunale e se qualcuno fa ancora il nome di De Sisti giuro che lo querelo».
16 maggio 1982, Cagliari-Fiorentina 0-0, Catanzaro-Juventus 0-1, scudetto a Trapattoni per un solo punto di vantaggio. Anche quella è un’amarezza?
«Sì, lo è, e anche grande. Un punto, all’ultima giornata…».
A settant’anni, di cosa va fiero?
«Dell’esordio all’Olimpico con la maglia della Roma, lo stadio della mia città con la maglia della mia squadra. Ero partito dalla parrocchia e mi sono ritrovato all’Olimpico».
Uno sguardo indietro. Chi è stato fondamentale nella sua vita?
«I miei genitori, Romolo e Maria. E mia sorella Gabriella. Oggi la guardo e vedo nei suoi occhi una stupenda felicità. E’ una fortuna averla con me».
Erano genitori invadenti?
«Bella questa, invadenti… La storia è questa: mia madre non voleva che giocassi perché sudavo e, secondo lei, non mi veniva il raffeddore ma subito la broncopolmonite. Lei mi bucava il pallone e mio padre me lo ricomprava, lei lo bucava ancora e lui di nuovo al negozio per comprarmene un altro. Finché un giorno mia madre, infuriata, disse a suo marito che se voleva farmi giocare doveva portarmi in una società dove, a fine allenamento, o a fine partita, potevo fare una doccia, così non mi sarei ammalato. E in questo modo è cominciata la mia storia col calcio».
Come è continuata?
«Con mio padre lavorava un dirigente della Forlivesi, una succursale della Roma. Andai a giocare lì per 6 mesi. Giocavo benino, mi videro i dirigenti dell’Omi che mi offrirono 36.000 lire di stipendio al mese. Ero orgoglioso, a 14 anni e mezzo potevo già aiutare la mia famiglia. Ma mi voleva anche la Roma per farmi entrare nel settore giovanile. Allora a casa organizzarono una riunione di famiglia, i miei genitori e anche i miei zii. Alla fine decise mio padre: “Questo ragazzo deve studiare e giocare nella Roma”. Aveva visto giusto».
Da chi è stato aiutato in carriera?
«Da Del Moro, Masetti e dai miei compagni della Primavera che rivedrò in questi giorni a casa mia. Da Schiaffino che mi ha insegnato a prevedere il passaggio, ad anticipare il gioco. Da Foni che mi ha fatto esordire. Da Pesaola e Liedholm che mi hanno dato le chiavi delle loro squadre autorizzandomi anche a fare dei cambi tattici durante la partita. Una volta chiesi a Pesaola di restare un giorno in più a casa e lui: “Picchio, lei non ha capito un c… Lei qui è padrone e deve fare quello che vuole”. Al Barone, invece, alla vigilia di una partita dissi che non ce l’avrei fatta a giocare perché avevo un gran dolore al piede e che doveva pensare alla mia sostituzione. E lui: “Sciancarlo, meglio un cavallo zoppo che un asino vivo”. Ed è impossibile dimenticare Ferruccio Valcareggi che mi ha voluto in Nazionale».
Su settant’anni, tredici li ha vissuti sulle rive dell’Arno. Cosa le ha dato Firenze?
«Sarebbe facile rispondere il mio unico scudetto o la prima panchina da allenatore. No. Firenze mi ha dato il suo cuore. Non è una città che ti accetta a occhi chiusi, prima ti pesa e poi decide se puoi essere dei suoi. Firenze ha capito che ero un buon giocatore e soprattutto una persona perbene».
Gli altri 57 anni a Roma.
«Che ha un punto in comune con Firenze: ama visceralmente la sua squadra. E la squadra di Roma è la Roma».
La Fiorentina, invece, cosa le ha dato?
«La possibilità di valorizzarmi come giocatore e di nascere come allenatore».
La Roma?
«Mi ha dato l’Olimpico».
Più di 25 anni da giocatore, più di 10 da allenatore. Può darci la sua formazione ideale mischiando ex compagni ed ex allievi?
«E come faccio? Se metto fuori qualcuno e lo ritrovo in uno di questi festeggiamenti poi sono cavoli miei».
Lei si metterebbe in campo o in panchina?
«In campo. Magari potrei fare una staffetta».
Con chi?
«Con Giancarlo Antognoni».
Augurarle altri 70 anni così forse è un po’ troppo. Ma cosa vede nelle sue prossime primavere?
«Intanto sono molto soddisfatto dell’incarico che ho nel Settore Scolastico della federcalcio, sono una specie di ambasciatore del fair-play, vado nelle scuole a parlare di etica, di regole e di rispetto, i valori più veri del calcio e della vita. Per il futuro, c’è tempo».
Cosa dice agli studenti?
«Dico che il calcio è un gioco di squadra e chi gioca deve fare tutto pensando alla squadra, mai a se stesso».
Perchè all’inizio ha detto che la sua vita è stata un sogno?
«Conosce il Quadraro? E’ un quartiere di Roma, c’è la parrocchia di Santa Maria del Buon Consiglio. Ho cominciato lì a giocare e sono arrivato davanti a 100.000 spettatori all’Azteca. Se non è un sogno, come lo vuole chiamare?».
Fonte: corriere dello sport