(M.Macedonio) – “Trecento presenze in serie A con la stessa maglia sono tante – dice Sergio Santarini, che quel traguardo, con indosso quegli stessi colori, lo ha ampiamente superato. – Ma anche se a volte gli capita di non rendere al meglio, non deve demoralizzarsi. Ma usare la testa e guardare avanti”. Dalla sua Rimini, l’ex difensore manda un messaggio di augurio e di incoraggiamento a Daniele De Rossi, alla vigilia di un obiettivo, raggiungibile in occasione di Roma-Parma, che lo farà entrare nel ristretto novero dei giocatori più presenti nella storia della Roma. Tra questi, appunto, l’indimenticato Santarini, in giallorosso per tredici stagioni, gran parte delle quali da capitano. Un numero importante, 344 presenze, che lo fanno essere terzo, alle spalle dei soli Totti e Losi. “Personalmente, avrei voluto metterne insieme altre e, magari, raggiungere e superare lo stesso Giacomino. Del resto, quando tutta una carriera la si è vissuta con una stessa maglia, è innegabile che ci si leghi a quella come a nessun’altra”.
Due storie, la sua e quella di Giacomo Losi, che si sono incrociate: escluso da Herrera, che gli preferì proprio Santarini, giovane promessa, Losi, a 33 anni preferì smettere piuttosto che andare a giocare altrove.
“Io fui quasi costretto a farlo. Avevo anch’io 33 anni quando la Roma mi fece capire che non rientravo più nei suoi piani. Ma stavo ancora bene fisicamente, e fu così che andai a Catanzaro, dove feci ancora un paio di stagioni, e il primo fu anche uno dei miei migliori campionati. Mi sarebbe piaciuto continuare a giocare all’infinito, anche fino a 40 anni, come è riuscito a tanti, penso a Vierchowod o a Javier Zanetti, e come mi auguro possa riuscire a Francesco Totti. Ma non mi divertivo più. Con il Catanzaro si lottava per non retrocedere e le motivazioni, per forza di cose, vennero meno. Peccato, perché in quella Roma di Liedholm, che stava per aprire un ciclo importante, avrei fatto volentieri anche la riserva….”
Veniamo a Daniele De Rossi, che raggiunge le 300 presenze, ma spesso alterna prestazioni brillanti ad altre meno felici. Come si spiega un rendimento così incostante?
“Mi dispiace vedere che a volte non rende come ci si aspetterebbe, anche perché sono sempre stato un suo estimatore. Però può succedere che si abbiano dei momenti di defaillance. L’importante, in questi casi, è non mollare. Non scoraggiarsi. Un po’ perché non ha ancora compiuto trent’anni, e quindi è ancora giovane, e poi perché l’annata storta ci può sempre stare, soprattutto dopo tanti anni giocati a certi livelli. Daniele è un grande giocatore, un leader, uno che può giocare in tutti ruoli perché ha la qualità e le doti tecniche per fare tutto in campo.”
Un problema di scarsa condizione o, come si è detto a volte, di ruolo?
“La posizione non c’entra. I grandi giocatori devono e possono giocare sempre. E poi, le cose le aggiusta il campo. Non si aggiustano alla lavagna. Questo per dire che io non credo agli schemi. Gli schemi li fanno i giocatori, che capiscono come sono fatti i propri compagni, e quali sono le loro caratteristiche. È da lì, semmai, che vengono. Tutti noi che siamo cresciuti con Liedholm – e chi non l’ha avuto, ha perso tanto – sappiamo che servono relativamente. Di certo, non ne eravamo schiavi. Con lui, semplicemente, giocavamo. Sempre. È così che imparavamo a conoscerci, l’un l’altro. Con i nostri pregi e i nostri difetti. Ed è solo così che quando si entrava in campo si era, a tutti gli effetti, una squadra. Quanto a Daniele, penso che in certi momenti si debba adoperare il cervello. Perché se ci si fa trasportare da certe situazioni, il rendimento ne risente. Daniele è uno che la testa ce l’ha. E allora, gli dico di non pensare alle critiche ed essere invece fiero, come so che certamente è, delle sue 300 partite giocate fin qui con la Roma”.