Ogni volta che si torna a parlare di Totti e di una sua ipotetica convocazione in Nazionale la mente del tifoso giallorosso si trova di fronte a un bivio, passionale e filosofico al tempo stesso: da una parte la suggestione della maglia azzurra, del coronamento di una carriera suffragata da numeri straordinari e supportata da una condizione smagliante proprio in concomitanza degli ultimi (?) giri di lancetta. Dall’altra, una sorta di timore, unito ad una morbosa possessività: perché il Capitano dovrebbe spendersi anche per la maglia azzurra, magari a rischio di qualche infortunio e con l’onere scontato di addossarsi le massime responsabilità in caso di risultati negativi?
La storia tra Totti e l’azzurro è stata una vicenda d’amore, se così si può dire, funestata dalle incomprensioni e da qualche contingenza sfortunata: protagonista assoluto a Euro Duemila in Belgio e Olanda, pure sotto la guida tecnica di un Dino Zoff suggestionato più dalle gerarchie politiche che da quelle tecniche, probabile vincitore del Pallone d’oro se gli errori di Del Piero (che entrato a partita iniziata sbagliò lo sbagliabile e anche di più) non avessero vanificato nella finale contro la Francia il vantaggio firmato Delvecchio. Nel Duemiladue un mondiale nippocoreano finito con un cartellino rosso firmato Moreno poco prima del golden goal di Ahn, il sudcoreano che Gaucci non volle più a Perugia dopo lo sgarbo. Due anni dopo, Euro Duemilaquattro in Portogallo, la vicenda Poulsen e la crocifissione su scala nazionale, con tanto di sociologi ed esperti di costumi scomodati per l’occasione. Scaricato da tutto il gruppo azzurro, tranne forse che dal Ct Trapattoni, colpevole però di averlo caricato di responsabilità eccessive alla vigilia della spedizione. Duemilasei, il trionfo in Germania, con la perla del rigore all’Australia, gigantesca assunzione di responsabilità e al tempo stesso esecuzione talmente perentoria da rappresentare uno spot della convinzione e della stima di sé. In più una serie di prestazioni, come quella contro la Germania padrona di casa ad esempio, che la critica non omaggiò come avrebbe dovuto, soprattutto alla luce dei sacrifici che nei mesi precedenti furono alla base del prodigioso recupero seguito al gravissimo infortunio patito a febbraio in quel Roma-Empoli da incubo.
Quando decise di rinunciare alla Nazionale, dopo aver raggiunto il massimo alloro, il processo mediatico fu impietoso e, al solito, geopoliticamente ispirato: non gli venne perdonata neppure la canottiera indossata durante la conferenza con la quale volle motivare la sua rinuncia all’Italia.
Certamente ha dato più Totti all’Italia di quanto l’Italia, in termini critici, non abbia riconosciuto a Totti: questo non è un giudizio romanocentrico ma una constatazione che ci sembra abbastanza obiettiva.
Questa però è un’altra era, l’ennesima di una carriera infinita: l’epoca del consenso definitivo, quello che tutti sono costretti a tributargli, perché parlano i numeri e la durata a grandi livelli, superiore a quella di ogni altro fuoriclasse italiano del dopoguerra. In più, la suggestione di un mondiale in Brasile, luogo del destino e approdo definitivo e simbolico di una classe immensa.
Che dire? Gelosi come siamo di lui, vorremmo tenercelo tutto per noi, ci mancherebbe; orgogliosi come siamo di lui, ci piacerebbe che avesse un’altra occasione per dimostrare al mondo la sua grandezza, con la possibilità che ancora una volta il mondo la riesca a cogliere meglio dell’Italia stessa.
Facciamo così: ancora una volta affidiamoci a lui, ogni volta che ha scelto per noi non siamo rimasti mai delusi.
Paolo Marcacci