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James Pallotta, presidente che ci tiene a ripetere di essere il capo (come se qualcuno rimettesse la cosa in dubbio), dalla terrazza che pende sui campi di allenamento di Trigoria gioca il suo derby, il primo a cui assisterà dal vivo e nel pieno possesso della sua carica e delle sue funzioni.
Sta lì a guardare e divide la mattinata di domenica in colloqui quasi privati concessi ai singoli giocatori. Soprattutto Bradley, con il quale per forza di cose c’è maggiore facilità di comunicazione, e poi De Rossi e Lamela, e via via tutti gli altri. Sarebbe stato più facile, magari non dalla terrazza per ragioni di buon gusto, tenere un discorso collettivo all’intera formazione. Ha preferito evitare, per analoghe ragioni di buon gusto. «Questo rientra nei compiti e nelle facoltà dell’allenatore» , ha risposto a chi gli chiedeva se non fosse il caso. Differenza sottile però concreta: una cosa è dialogare faccia a faccia, un’altra prendere il comando. Non ha voluto in nessun modo dare l’impressione di concedere ad Andreazzoli sovranità limitata e anzi è con lui che ha avuto il colloquio più lungo. A parte naturalmente il pranzo di sabato con Francesco Totti, il quale nella storia e nella cronaca della Roma conta più di qualsiasi allenatore. E a parte pure la cena con il direttore generale Baldini e il direttore sportivo Sabatini.
Sta lì sulla terrazza dalle dieci e mezzo, Pallotta. E ci resta anche dopo che alcuni giocatori hanno cominciato ad andarsene. Quasi a sottolineare che quella è casa sua, Trigoria, il centro sportivo Fulvio Bernardini che Gaetano Anzalone cominciò a costruire, Dino Viola inaugurò e la famiglia Sensi riuscì a salvare in qualche modo in un momento difficile. Sta lì perché vuole capire dove stia andando la sua Roma. Che sembra sempre essere in procinto di prendere una strada, giusta o sbagliata, e poi rallenta, esita, devia.