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IL ROMANISTA Il derby nel giorno di Agostino

Agostino Di Bartolomei

(T. Cagnucci) – Da due giorni a Roma gira un ritornello, una storiella che fa parte della Collana “a noi non ce frega niente della Coppa Italia“. È ’no stornello: “Che tristezza ’sto derby“. O cose così: “Siamo rientrati nel raccordo anulare“. Detto che stare dentro al raccordo anulare è un privilegio che tutti quelli che stanno fuori si sognano, detto che queste sono esattamente le considerazioni pronunciate da quell’angolo visuale che ci fa piccoli e settimi in classifica (perché chi non sa apprezzare le piccole cose, le grandi se le sogna; chi non apprezza le sue cose, quelle delle altre le invidia), detto e ridetto che la situazione è triste, la classifica castrante, bisogna aggiungere di dire: pensa se va male pure lunedì quanta tristezza piove giù. E sta piovendo troppo.

Meglio il sole. Soprattutto di notte. Lunedì è un giorno speciale e non solo perché si gioca a pallone (rovine di questo mondo post-umanità). Lo è per due motivi che vanno uniti, perché lo sono: c’è il derby ed è il compleanno di Agostino. Avrebbe compiuto 58 anni Agostino Di Bartolomei che invece adesso è giovane per sempre. Lui c’è sempre soprattutto quando gioca la Roma, ma lunedì sembra fatto apposta: non s’è mai giocato un derby quel giorno.

Nel giorno di Ago. Roma-Lazio per un romanista è una partita che non sarà mai triste, può essere una partita da non giocare mai, una partita che ti dà fastidio, ti fa star male, può essere La Partita oppure la gara contro una squadra che non esiste. Può essere e non essere, puoi dormire, morire, forse sognare, ma la devi giocare. Il Derby può – in maniera sacrosanta – non essere considerato un derby da un tifoso della Roma visto che si trova a sfidare una squadra e dei sostenitori ostili al nome, ai colori e al simbolo della Città. Il derby può essere tutto o niente, ma non puoi essergli indifferente. Puoi fare finta di esserlo, ma non esserlo. Sennò non sei Semplice. Non puoi mettere le mani avanti, non puoi ridurlo a una storiella, non puoi spacciarla per provinciale una partita che è comunque quella della Capitale (nel senso che sta a te difendere il nome, la tradizione, l’amore). Chi dice così, non sa cos’è il derby e non sa cos’è la Roma. Non sa nemmeno chi era Agostino. Non sa che ha fatto Agostino. Di Bartolomei è stato il capitano della Roma più grande e bella e colta e popolare e profumata di sempre, tra il Brasile e la Svezia, tra Copacabana e Tor Marancia, dalle università alla strada era Roma Campione, era Roma romana.

La sua Roma l’ha costruita dalla Primavera – fascia al braccio, orgoglio nel petto – e l’ha portata a giocare la Coppa Campioni, a vincere lo scudetto più atteso, più struggente, a sfiorarne almeno altri due, ad alzare coppe, ad arrivare seconda con strazio, mille categorie sopra alla Lazio. La sua Roma aveva come rivali la Juventus e il Liverpool, la sua Roma la Lazio se l’è persa per strada, inciampata nella prima consonante dell’alfabeto.

Eppure RomaLazio per Agostino Di Bartolomei era la partita. «Ci sono i tifosi e poi ci sono i tifosi della Roma», una volta disse. Un’altra volta disse che quella era la partita dei tifosi della Roma. Fate l’equazione e poi guardatevi soltanto un suo Roma-Lazio, quello del febbraio 1984. La Roma stava aspettando di giocarsi i quarti della Coppa dei Campioni e in campionato incontrava una Lazio in lotta per non retrocedere (in fondo è quella la dimensione naturale per un laziale che non ha fatto altro che lottare per non retrocedere da quando nel 1927 è retrocesso per sempre). Guardatevi – se andate su Youtube lo trovate facilmente – quel derby: quando Agostino Di Bartolomei con la fascia al braccio segna sotto la Nord il rigore dell’1-2 (perché non si sa come la Lazio di Lionello Manfredonia stava sopra 2-0), va a prendere il pallone in fondo alla rete, viene affrontato da un certo Della Martira (uno che era stato coinvolto in vicende da totonero, tutto a norma) che Agostino scansa, affronta. Prende il pallone, lo sbatte forte per terra, si va a mangiare Della Martira, tutta la difesa della Lazio, va verso il centrocampo poi ritorna indietro ad arrabbiarsi persino con l’arbitro. Butta il pallone per terra che vola in aria. E’ l’esultanza più rabbiosa che si ricordi. Non un accenno di altro, non una nota lieta, ma solo quella palla sbattuta a terra con rabbia: era il suo modo per dire ti amo (come quel vaso di fiori lanciato nel giro di campo per lo Scudetto). Un modo senza modo di Agostino per dire che era inaccettabile quella cosa, che la Roma stava perdendo con la Lazio. Non poteva essere, non può mai essere. Poi finì 2- 2 e finì pure male, con Agostino arrabbiato anche a fine partita perché non solo quella Roma lì, ma qualsiasi Roma con la Lazio non può nemmeno accontentarsi di pareggiare.

Da due giorni a Roma gira una storiella, da sempre però ne gira un’altra: Roma-Lazio è Roma-Lazio e stavolta si gioca nel giorno di Agostino Di Bartolomei. Nel giorno del Capitano tutte le partite sono vere, nel giorno del Capitano tutte le cose sono cose serie. Nel giorno del Capitano i girasoli seguono i riflettori. Nel giorno del Capitano non sono ammessi errori. Nel giorno del Capitano tu Roma giocala con quella forza che Agostino ha sempre avuto nei piedi. E quel giorno persino nella mano

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