(E. Sisti) – Ferguson lo segue, gli sembra un po’ Cristiano Ronaldo, gira voce che lo United sarebbe pronto a offrire per lui una cifra importante, soldi che alla Roma farebbero assai comodo, certo, ma soltanto a condizione che la società decidesse di suicidarsi rinunciando al proprio futuro, abbassando il tiro e cancellando ogni possibile evoluzione del progetto americano (ammesso che ne esista uno). Erik Lamela non è un mostro di continuità. Lo è di qualità. Ha più estro di Di Maria e al ct Sabella potrebbe far comodo. Ma non è ancora formato del tutto.
Ha patito Luis Enrique, Zeman, Andreazzoli. Non ama le gabbie tattiche, ancora non sopporta di “farsi” tutta la fascia e forse non lo sopporterà mai, ossia non è convinto che il suo destino sia quello di diventare un leader a tutto campo come Rooney: «Io devo guardare avanti». Spesso gli hanno chiesto di fare il terzino. Non è cosa. Non conviene a nessuno che il ragazzo si metta a inseguire Estigarribia. Meglio che sia lui a far danni. Ha patito anche il suo essere venuto calcisticamente al mondo in una squadra leggendaria che stava retrocedendo per la prima volta nella storia (il River Plate). In campo, in quei giorni disgraziati, Erik faceva il proprio comodo: correva, portava palla, scardinava difese, costruendosi un’idea tutta sua del calcio, come fosse un monologo d’arte. Si discute della sua concentrazione frammentaria e di come sia riuscito nel derby a spedir fuori quel pallone di testa. Però la sostanza è tale (ed è per questo che non lo cerca soltanto Ferguson) da immaginare progressi spaventosi.
Occorrerebbe soltanto un surplus d’educazione, qualche libro da sfogliare senza pressioni, una maggiore di attitudine al sacrificio, che non significa giocare terzino ma capire il senso, la direzione delle cose in campo, interpretare la storia di un match al di là delle belle giocate. Con quello di ieri sono quattordici le sue reti in questo campionato. Ci sono gesti che si ripetono, che lui ripete. Lo schema del taglio centrale orizzontale o appena diagonale, palla al piede, che si conclude con un sinistro a giro sul palo più lontano è la sua “cup of tea”. L’unico a non saperlo doveva essere Masiello, che ieri non l’ha seguito. Quasi identico fu il suo primo gol in Italia (al Palermo), con traiettoria bassa. Nei mesi scorsi, quando la Roma era grigia e incomprensibile, Erik ha spesso cercato di dribblare il mondo intero. Doveva dar luce e invece era lui il primo a rabbuiarsi.
Ieri ha dato lo strattone finale alla partita in cui Torino e Roma, una sognando il pari e l’altra pensando forse più all’Inter di dopodomani, si sono a lungo confrontate nel brutto, fra errori di controllo e passaggi sbagliati, schiacciando a centrocampo una poltiglia umana.Merito di Totti (entrato per Pjanic) e Lamela se nel secondo tempo la Roma ha superato l’Inter in classifica conquistando tre punti benedetti. Osvaldo, mattatore in settimana, è tornato a segnare (non succedeva da Bologna), con un colpo di testa reso possibile dall’inconsistenza di Ogbonna (ma sarà davvero lo stesso Ogbonna che s’era guadagnato la nazionale?). Accadeva al 22′ del primo tempo. Otto minuti dopo, Burdisso faceva l’Ogbonna e come a Palermo per il 2-0 di Miccoli rimaneva paralizzato (nervi a pezzi o assenti?) mentre il pallone rimbalzava a cinque metri dalla porta: facile per Bianchi l’1-1. Poi la svolta nella ripresa. Col “coco” che torna indispensabile per oggi, domani, dopodomani.