(L. Valdiserri) – Non è la restituzione completa della «manita », perché degli ultimi 5 derby la Lazio ne ha vinti 4 e pareggiato uno (inutile, l’ultimo di campionato), ma lo schiaffo dato alla Roma nella finale di Coppa Italia fa ancora più male. La Lazio si prende l’emerso: il trofeo (il terzo dell’era-Lotito), la qualificazione alla prossima Europa League, 15 milioni garantiti, la supremazia cittadina, la possibilità di fare un mercato più ricco e l’affermazione che i l triangolo Lotito-Tare- Petkovic incide infinitamente di più delle filosofie della Roma americana. E si prende anche il sommerso: mesi di sfottò ai rivali, rafforzati dall’aver impedito la conquista della decima Coppa Italia, con annessa stellina d’argento che avrebbe fatto tanto marketing. Julio Velasco, che proprio nella Lazio cercò e non trovò fortuna nel calcio, diceva: chi vince festeggia e chi perde spiega.
La festa della Lazio è sotto gli occhi di tutti, con Vlado Petkovic sotto la Nord con l’aquila Olympia appollaiata sul braccio e il presidente Lotito che si gode il suo trionfo. Crollata in campionato e in Europa League, la Lazio ha ritrovato le forze per l’ultimo sprint. Quanto alle spiegazioni della Roma, attesa da un altro anno fuori dalle coppe europee, chissà chi si farà avanti — tra i tanti dirigenti a libro paga—per dire qualcosa ai tifosi stremati da una stagione orribile, dove sono stati bruciati prima Zeman e poi Andreazzoli (e prima di loro Luis Enrique). La telenovela Allegri, che quanto meno durerà fino a venerdì, visto che l’incontro con Berlusconi è stato rinviato, rischia di essere l’ennesima umiliazione.
Nel frattempo il miglior allenatore d’Italia, Vincenzo Montella, è stato scartato per due volte. In una gara povera di contenuti tecnici alla Lazio è bastato fare poco contro il nulla della Roma. Primo tempo di rara bruttezza, con due occasioni da gol per Klose e una per Destro. Il piano tattico di Andreazzoli è accettare una squadra spaccata in due: sei dietro e quattro davanti (Lamela, Totti, Marquinho e Destro). Enorme la distanza tra i due centrocampisti difensivi (Bradley e De Rossi) e il fulcro dell’azione offensiva (Totti): così non si corre il rischio di subire il contropiede, ma il gioco non esiste. Restano solo i lanci lunghi di Castan e De Rossi. La Lazio esprime un calcio più organizzato, senza brillare ma avendo in campo dei punti di riferimento.
La ripresa sale un po’ di tono per due motivi: 1) impossibile fare peggio; 2)l’infortunio di Ledesma costringe Petkovic a disegnare a sua volta un 4-2-3-1 (Onazi e Hernanes davanti alla difesa) che si rivela più produttivo. Il gol che decide la finale è un concentrato di simboli: crossa Candreva, mai contrastato da Balzaretti, che doveva essere un grande acquisto del mercato estivo e ha giocato una stagione disastrosa; buca Lobont, che di questa squadra doveva essere il terzo portiere dietro Stekelenburg (malato immaginario) e Goicoechea (il prediletto di Zeman); segna Lulic sul quale era stato mandato, fuori ruolo sulla fascia, il miglior centrale difensivo della Roma, cioè Marquinhos.
È il 71’. La Roma costruirà una sola palla-gol (punizione di Totti mal valutata da Marchetti, che riesce però a schiaffeggiarla sulla traversa) e la Lazio sprecherà il raddoppio in contropiede con Mauri. Finisce con le respinte di Ciani tipo «calcio di una volta» e con la tristezza di vedere Burdisso all’attacco come arma della disperazione. Osvaldo esce insultando Andreazzoli e spaccando un tabellone dello sponsor. Pjanic non è mai entrato dalla panchina. Addio Roma, immenso spreco di talento. La festa è della Lazio, dove ognuno, in campo e fuori, sa quale è il suo compito