(T. Cagnucci) – Tu chiamale se vuoi emozioni. Però bisognerebbe trovare non tanto un inizio meno banale, piuttosto qualche altro nome a quello che è successo ieri notte sotto il cielo di Firenze. Il palo colpito dalla Fiorentina all’ultimo minuto, il palo colpito proprio dall’ex, il palo colpito proprio dall’ex proprio allo stesso punto proprio nella stessa porta nello stesso minuto dalla Fiorentina in Coppa Italia contro la Roma, così tutto di fila senza una virgola perché è stato senza fiato e il gargarozzo è rimasto appeso al “sette”; il gol al penultimo di recupero, alla penultima azione, al minuto successivo, perché il minuto successivo ancora sia ancora più bello, il gol al 92′ che da queste parti è un po’ come il mare d’inverno, un concetto che nessuno considera per una popolazione cresciuta a forza di Vavra e di gelo dietro allo schiena quando invece sembrava arrivata primavera.
E prima tutta una retorica tipicamente risorgimental-fiorentina fatta non solo da quell’ex, ma da tantissimi altri ex che non avrebbero mai voluto diventarlo, e dai commentatori plaudenti la nouvelle vague sviluppatasi quest’anno su Ponte Vecchio, i pronostici chiusi, il loro calcio che scivola via senza Q, Cuadrado anche se il pallone è tondo, con orizzonti viola nelle loro albe di Champions e tutte le scelte sbagliate di questa dirigenza (metteteci pure dentro un po’ di gufi de noantri, cosiddette vedove di un passato che bello o brutto che sia è però semplicemente una cosa: passato). E a un certo punto pure un rigore contro la Roma che forse (beh, non si può mica ammettere tutto) c’era e non dato, che veramente diventa un’esperienza extrasensoriale, un messaggio tantrico con l’inaudito se a non fischiarlo è Mazzoleni da Bergamo sottosopra, che si chiama Paolo Silvio e allora forse intuisci perché non l’ha fatto, ma questa resta una cattiveria. Perché la verità, anzi la storia, è che ieri 4 maggio (pardon Gran Torino) neanche il cielo poteva vincere la Roma.
Sotto quello di Firenze s’è riscoperta Roma non tanto nel gioco, che a un certo punto proprio non c’è stato, non tanto nell’arte pedatoria (perché con quelle maglie addosso resta sempre arte) non tanto per come ha tenuto, nemmeno per come ci ha creduto andandoci là fino all’ultimo calcio d’angolo, ma per come ha goduto. Per come è esplosa. Per come è stata bella in quel momento. Per come è stata Roma. Una supernova soltanto con un pezzetto di cielo. Uno spicchio del Franchi. Lì sotto un angolo di nitroglicerina, una gioia a 90° a luce rossa, che si compone smodatamente in un attimo con le due braccia bionde di De Rossi alzate contemporaneamente come a dire “arrendetevi voi”, mentre Osvaldo finalmente sbrocca con un colpo di testa nella maniera giusta e tutti gli altri sbroccano all’Osvaldo che in quel momento, altro che occhi da tigre, sembra un cuccioletto di gatto che non vede l’ora di andarsi a riprendere il suo gomitolo di coccole tessuto da tremila tonsille arrivate fino alla Cupola del Brunelleschi e ringoiate nelle viscere trasteverine.
Tu, se non vuoi non chiamarle emozioni, chiamale pure “esperienze di settore”. Basta che specifichi che non si tratta di rami d’azienda, di brand, e inutilità nocive del genere, ma di tutt’altro. L’esatto opposto del capitale, visto che si tratta dell’anima più vera della Capitale. Del settore fra la tribuna e la curva Ferrovia. Del Settore. Dei tifosi della Roma. Perché una vittoria del genere, un Fiorentina-Roma così che non ti puoi spiegare in nessun modo, te lo puoi spiegare appena con tremila motivi, tutti quelli che sono partiti per portare non una bacione a Firenze ma un abbraccio alla Roma. A Firenze, come a Milano e come a Torino.
Da quando hanno riaperto le porte siamo passati come il vento e ovunque abbiamo vinto. Dove si aprono le frontiere c’è Roma e la Roma, apposta adesso annusiamo l’Europa (ed è un bel profumo, sa veramente di primavera). Ora rifacciamolo a casa nostra che per definizione è città aperta e che chiusa deve restare soltanto a una sbiadita minoranza. Rifacciamolo così per una partita di fine maggio, per un mercoledì che deve arrivare, per tutti i Vavra ancora da giustiziare e per troppe dediche ancora da fare. Poi se ce la fai, più che se vuoi, quelle sì chiamale emozioni.