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IL ROMANISTA Quella stella che non perderemo mai

Agostino Di Bartolomei

(T. Cagnucci) – In queste notti di maggio qualcuno ha paragonato la sconfitta di domenica con quella in finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool il 30 maggio. Oggi è il 30 maggio. Non c’è niente di più lontano. Quella notte il cielo si oscurò con i colori di Roma veramente e quella sera è rimasta sulle nostre palpebre, la rivediamo ogni volta che le chiudiamo. Eccola. Sta sempre qui, abbandonata… Non c’entra niente il 30 maggio con questo 26 che fa rima con niente. Il 30 maggio è la nostra ferita per antonomasia e non sarà mai rimarginata, ma spurga orgoglio, dignità, storia. Non va tamponato il 30 maggio, perché tutto quello che ne fuoriesce sono ricordi, sorrisi, battiti, profumi, Roma. Esempi. E ancora e soprattutto: orgoglio, dignità, storia. Mai, mai, mai, mai la Roma è stata così Roma come quel giorno. Mai così grande. Mai così in alto. C’è un momento che la immortala, letteralmente purtroppo. Quando Ago salta dopo il suo rigore: in quel momento la Roma è in vantaggio sul Liverpool dopo la prima serie dei rigori. In quel momento è Roma Giallorosso 2 – Liverpool Biancorosso 1 (c’era scritto così sui maxischermi). In quel momento la Roma è Campione d’Europa.

Quel momento non è stato più raggiunto. Oggi è 30 maggio. Non c’è niente di più lontano da oggi. Il 26 maggio del 2013 il cielo s’è oscurato e non nei colori di Roma. Il 30 maggio la Roma non ha perso la partita col Liverpool, ed era il Grande Liverpool, il 26 maggio la Roma ha perso contro la lazio, contro Biava, Konko, ma pure a scrivere Lulic si capisce il senso tombale della rovina (vero caro Pjanic?). Il 26 maggio è una vergogna, una macchia, un’onta. La sconfitta più umiliante della nostra storia proprio perché capitata contro quello che giustamente Totti ha definito come il niente calcistico. Per un romanista la lazio è un fastidio, un interrogativo (come fai a tifarci? come fanno a dirsi romani se insultano il nome di Roma?), un enorme esercizio antropologico di comprensione, una palestra di democrazia visto che capita di avere amici o parenti o – più difficilmente – amori così. Il silenzio di Roma di questi giorni, sotto il cielo oscurato, dà questo senso: che la Città è nostra, che la Città è triste. È una Città che non vota, è una città dove non arriva la Primavera. È una città che non sta soffrendo perché ha perso con la lazio (questa soddisfazione loro non ce l’avranno mai da nessun romanista che si dica tale, e forse dopo questa Coppa, forse, lo capiranno e sarà ancor più frustrante per loro: nessun successo potrà colmare mai la distanza che c’è fra una polisportiva, podistica, squadra di calcio che sia e un’idea, un sentimento, un nome che è Roma e il suo sangue, la sua gente, la sua passione); è una città che è sgomenta di aver visto questo niente.

Noi tutti Rutger Hauer che siamo andati a largo dei Bastioni di Orione e abbiamo visto Oddileone segnare a Berlino, il terzo gol col Goteborg, la rimonta col Dundee, il dito di Nela, le file di quartiere per un biglietto con un Re di Coppa, lo stadio Olimpico degli ottantamila, ogni volta, ogni giorno, ogni sera. Noi adesso abbiamo perso contro Claudio Lotito una Coppa. Il 30 maggio e il 26 maggio sono i nostri poli, i nostri limiti, dovrebbero rappresentare per un romanista il concetto della differenza. Oggi a Trigoria dovrebbero pensare a questo. Proprio oggi, come un minuto di silenzio lungo un giorno. Oggi è il 30 maggio. Studiatelo. Oggi è il 30 maggio rispettatelo. E fatelo con la Storia della Roma. Sappiatelo il 30 maggio. Vivetelo il 30 maggio. Noi veniamo da lì, noi siamo ancora fermi lì: campioni d’Europa per un attimo e mai sconfitti, mai sconfitti nella partita più importante della nostra storia. Noi siamo la Roma. Noi non possiamo perdere con la lazio, noi la lazio non la contempliamo.

Erano a giocare con la Cavese loro. E se ci pareggiavano 2-2 facevano festa. Quella notte ha scolpito i nostri confini, i nostri destini, i nostri e i vostri doveri. Tornare lì, andare lì, mirare lì da dove arriviamo, dove dobbiamo tornare, dove vogliamo, preghiamo, di riessere. Bagnarsi di tutto ciò che Roma. Che non è retorica, che non è poesia spicciola, ma per esempio è un logo da rispettare, è un sentimento: sapete quante iniziative ci trovate dentro un sentimento? Nessuno si dimetta, troppo facile. Se qualcuno ha questa idea prima completi il lavoro che è chiamato a fare. Nemmeno assumersi tutte le responsabilità è una mossa che porta a chissà cosa, anzi non porta a niente: è qualcosa a metà tra un esercizio narcisistisco (testo consigliato “Donare il tempo” di Jacques Derrida) e un autolavaggio di coscienza. Eroi nel vento. Si ascoltino i tifosi per il logo, si tolga per la prossima stagione il nome dei giocatori dalle maglie per rendere visibile e manifesta a tutti che la Roma non può accettare quella sconfitta.

Si ufficializzi prima di adesso non solo l’allenatore (stiamo aspettando le ferie di Berlusconi e sono passati tre giorni, e in tre giorni si fanno tante cose, si sa) ma al tecnico si affidino veramente le chiavi dello spogliatoio: per tattica e disciplina, per scelta dei giocatori. Si prenda un portiere forte e soprattutto in quel ruolo si decida che il numero uno sia soltanto uno, quello per forza (alla fine questa Coppa l’abbiamo persa anche per la questione irrisolta dai tempi di Tancredi del portiere); si comprino giocatori voluti dall’allenatore e che siano tutti di livello, ma si compri anche un nome, un campione, un trascinatore, un fuoriclasse coi piedi e con l’anima. Questo maggio è simile a quello del 2000 quando Franco Sensi finalmente rispose alla lazio comprando Gabriel Omar Batistuta: è in quel momento che abbiamo vinto lo scudetto. A fine maggio del 2000, non il 17 giugno del 2001. Non si nomini e non si pensi a nessun 17 giugno 2001, si guardi in videocassetta (non solo è vintage, ma implica più premura e attenzione nella visione) la sconfitta del 26 maggio per non dimenticare mai il punto più basso. La Roma di Spalletti dopo il 7-1 a Manchester venne in conferenza a chiedere scusa e tutti i suoi giocatori dissero una cosa: “Non dobbiamo dimenticare l’Old Trafford”.

Una sconfitta può essere un patrimonio se la trasformi in qualcos’altro. Se prendi il dolore e ci metti le mani dentro. Se immagini e senti le lacrime, anche quelle inghiottite dentro, dei tuoi tifosi. Se pensi ai ragazzini che sono andati a scuola con la sciarpetta prima della partita e, ancor di più, dopo quella partita. Se ascoltaste tutti i “Forza Roma” chiusi dentro alla gola, se capiste veramente che cos’è la Roma. Tutti si appendano la foto della Curva Sud davanti agli armadietti e negli uffici, sognando di diventare loro: i tifosi della Roma che hanno esposto domenica questo striscione: “Il cielo si oscurò con i colori di Roma”. Un esercito di Shakespeare. Oggi è 30 maggio e il 30 maggio fra le sue tantissime altre cose – le cose della vita quelle che fanno piangere i poeti – ci ha insegnato che c’è sempre un’altra partita. C’è sempre anche quando non sembra. C’è stata anche dopo il 30 maggio. Era un 26 (di giugno) è stata l’ultima volta che Agostino Di Bartolomei ha giocato con la Roma. La sua maglia non aveva il suo nome, perché lui era quella maglia. L’ultima cosa che ha fatto è alzare al cielo la Coppa Italia. È l’ultima cosa che ha toccato Agostino, quella Coppa. Stella poi c’è diventato lui. E quella Stella noi non la perderemo mai. Forza Roma.

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