Lettera di Antonio Maglie a De Paola.
Caro Direttore,
in questi giorni di trambusto ho letto molto e ascoltato altrettanto in merito alla polemica sulla prima squadra di Roma, polemica, a mio parere, irrisolvibile perché nei confronti della squadra del cuore ognuno di noi ha lo stesso atteggiamento che ha nei confronti di se stesso o, meglio, del concetto di sé, concetto che normalmente ci induce a pensare di non essere meno bravi o intelligenti di Einstein o, al minimo, del nostro capo-ufficio.
Ho letto con attenzione il pezzo del collega Dotto, apprezzandone la grande qualità di scrittura, inevitabile, peraltro, in un “allievo” di Carmelo Bene. Ma se la forma, dal mio modestissimo punto di vista, era apprezzabile, non altrettanto lo era il contenuto. Il rispetto di sé e della propria parte si misura con il rispetto che si porta nei confronti di chi ti sta di fronte; una società complessa come la nostra non può esaltarsi nell’autoreferenzialità e questo vale soprattutto nello sport dove la qualità tanto dei successi quanto degli insuccessi è misurata dagli avversari. In un deserto non può esserci competizione, al massimo strenue lotta per la sopravvivenza. Il collega Dotto apprezzerà la citazione di un poeta che le rime le metteva in musica, Fabrizio De Andrè: “Le finestre aperte sulla strada, gli occhi chiusi sulla gente”.
Quarant’anni fa, quando sono arrivato a Roma, la Lazio di Maestrelli e Chinaglia vinceva lo scudetto e la cosa mi appassionò perché mi sembrava Davide che piegava Golia, una squadra che solo qualche tempo prima era salita dalla B che travolgeva le Grandi del Nord.
Poi ho visto la Roma di Liedholm, il suo Tiki-Taka ante-litteram e mi sono divertito. Ecco perché penso che questa città non possa fare a meno di nessuna delle sue due squadre essendo funzionali a una corposa vicenda umana collettiva, per quanto multiforme e articolata.
Non può farne a meno così come non può fare a meno dei romani di sette generazioni e di quelli che romani sono diventati con gli anni, della storia raccontata dalle sue straordinarie vestigia e delle storie dolenti delle periferie, delle borgate, della Dolce Vita di Fellini e dei «ragazzi di Vita» di Pasolini, delle ironiche caricature degli italiani di Albertone Sordi e della prorompente e popolana umanità di Anna Magnani. Roma è il caleidoscopio dell’Italia.Anche nel calcio.
Ma non ho trovato convincente nemmeno Claudio Lotito che reclama il rispetto delle regole e delle istituzioni finendo per smentirsi nel momento in cui lui, da espressione delle istituzioni, dimentica il suo ruolo. Lotito è consigliere federale non in rappresentanza della Lazio ma dell’intera serie A, in Federazione porta le istanze di tutti, della sua squadra, ma anche della Roma e del Chievo. In tale veste si è pure candidato alla vice-presidenza della Figc. Esser potenti non significa avere muscoli tonici ed esibirli: per quel tipo di esibizione bastano e avanzano i concorsi di body building. Così come essere autorevoli non significa assumere atteggiamenti autoritari (leggere Pasolini per credere) accompagnandoli con toni di voce elevati. L’autorevolezza è la capacità di difendere all’interno di una istituzione il bene comune, rappresentare con equanimità l’interesse collettivo. Da questo punto di vista, l’arringa di Lotito non è stata propriamente un esempio di adesione alle regole del bon ton istituzionale.
Per quanto riguarda Pallotta, poi, sarebbe opportuno che si applicasse un po’ di più nella conoscenza dell’Italia e di Roma: l’accusa di “romanista” può avere un carattere “infamante” se a lanciarla è un laziale verso un altro laziale, ma se a lanciarla è un romanista verso un laziale finisce per essere, lessicalmente, solo un boomerang.
Fonte: Corriere dello Sport