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IL ROMANISTA De Rossi, la Roma negli occhi e nel cuore

Daniele De Rossi

(T. Cagnucci) – Dopo la Supercoppa vinta a Milano dedicò la «vittoria alla ragazza di Ostia morta in un incidente stradale», il gol agli Usa in Sudafrica a «Slimano, un ragazzo triste di Roma», e ancora oggi quando parla del suo esordio azzurro più che ricordare quella prima volta, pensa a Enrico Spanarello che giocò con lui quel secondo tempo a Firenze ed è sulla sedia a rotelle per un incidente avuto nel 2001. Dopo Italia-Georgia 2-0, a Udine, Daniele De Rossi in diretta televisiva ha voluto fare una dedica al suocero che il mese prima era stato ritrovato morto ammazzato nella campagna romana, Massimo Pisnoli. Il suocero di De Rossi era un pregiudicato, non aveva la fedina penale pulita, si dice così, ma era il papà di quella che all’epoca era sua moglie, era il nonno della creatura a cui Daniele sarà sempre più affezionato della sua stessa vita. Era un essere umano. A metà agosto 2008 l’assassinio del suocero di De Rossi è una notizia che non solo non passa per niente inosservata, ma viene ogni volta ripresa e amplificata. Soltanto che in quel momento ci sono tre figlie che non hanno più un padre e due di loro non sono ancora donne. E il modo in cui tutto questoavviene. È una storia sbagliata, cantava De André in morte di Pasolini. Pasolini scriveva: “La viltà avvezza a vedere morire nel modo più atroce gli altri, nella più strana indifferenza. Io muoio e anche questo mi duole”La dedica di Daniele non è estemporanea, è una dedica vera. A fine gara l’ufficio stampa della Nazionale, sapendo del dramma, aveva chiesto alla Rai di non fare a De Rossi domande sulla vita privata, ma è stato lo stesso giocatore a dare il via libera, cercando proprio il modo per tirare fuori quello che aveva nel cuore: “Dedico la vittoria e la doppietta a mio suocero. La mia famiglia è stata bombardata in questo periodo con troppe bugie, sul suo conto si sono dette cose non vere. Chi lo conosceva gli voleva bene. Certi giornalisti di cronaca hanno speculato e messo in giro vere e proprie bugie. Per la mia famiglia è stato un calvario. Per mia moglie, le sue sorelline è stato uno shock vero e proprio. Loro sono piccole e forse qualcuno se lo è dimenticato. Capisco il diritto di cronaca, ma speravo in un po’ più di umanità nella vicenda. C’è gente che soffre. Invece ho visto una cattiveria e un cannibalismo che mi hanno schifato. Ho rivalutato i giornalisti sportivi. Avrei voluto fare la dedica a mio suocero già a Milano, dopo il gol in Supercoppa, ma temevo di essere interpretato male“.

Succede soprattutto dopo questa dedica, e non solo da parte di certa stampa pronta a bacchettare con la sua grassa falsa morale un ragazzo che stava vivendo un lutto. Il sindacato di polizia fa una nota in cui definisce «incaute e inopportune» le parole di Daniele sul suocero, perché De Rossi per quello che rappresenta dovrebbe essere d’esempio a «milioni di giovanissimi». Come se avesse fatto una dedica alla criminalità. Spalletti in conferenza dice delle cose vere: «Ho letto titoli imbarazzanti. Come si possono giudicare affetti e sentimenti così privati? Quello di Daniele è stato un abbraccio alla sua famiglia. Proprio per il rispetto dei principi della famiglia, per il rispetto delle forze dell’ordine, meno interpretazioni si danno e meglio è per tutti». Don Mario Lusek, il cappellano degli azzurri alle Olimpiadi di Pechino, è un esempio di prete che sa a memoria il diritto divino e che non si è ancora scordato il perdono: «Il dolore di De Rossi va rispettato, così come devono essere rispettate la sua vicenda e il dolore delle vittime della violenza. Il dolore che sta in noi è diverso da quello di un altro». È un’altra canzone: “E per tutti il dolore degli altri è dolore a metà” (Fabrizio De André, Disamistade). Non siamo all’evangelico «chi non ha peccato scagli la prima pietra», perché c’è peccato e peccato (anche se Pisnoli non era né un assassino, né un pedofilo, né uno stupratore); non si tratta nemmeno di arrivare a capire che il vero disperato è chi sbaglia (De André disse dei suoi sequestratori: «io ne sono uscito fuori, loro no»), siamo al chi è che non farebbe qualcosa per una persona cara che non c’è più?

Lo scandalo qual è? Aver voluto bene a qualcuno che ha anche sbagliato? Volergliene ancora? Ok, ma quando muore? E quando muore ammazzato? Chi è che non si ferma davanti a un lutto? Quanto sono lontane certe critiche da certi cori che riceve negli stadi? Chi è che se potesse non dedicherebbe qualcosa al nonno di sua figlia mentre il mondo attorno fa a gara per sparlarne solo perché non sa cos’altro dire dal parrucchiere? Non si tratta nemmeno del perdono cristiano, perché non è un obbligo essere cristiani, si tratta di umanità e quella è una condizione comune. Dovrebbe. Avrebbe dovuto star zitto, dicono altri: e perché? Cosa c’è di sbagliato nel portare un fiore? De Rossi non ha fatto che quello.

Non si è permesso di difendere le azioni sbagliate del suocero, non ha nemmeno pensato di farlo, non lo ha fatto, non lo avrebbe fatto mai. Perché avrebbe dovuto star zitto? “Non c’è più niente che assomigli all’esilio, alle lotte, alla galera. C’è solo l’egoismo incontrollato, la smania di affermarsi, il denaro, il potere, l’avidità più schifosa!… Bisogna assolutamente trovare il coraggio di abbandonare i nostri meschini egoismi e cercare un nuovo slancio collettivo, magari scaturito proprio dalle cose che ci fanno male, dalle insofferenze comuni, dal nostro rifiuto. Ma la rabbia che portiamo addosso è la prova che non siamo annientati da un destino così disumano che non possiamo lasciare ai figli e ai nipoti. Mi fa bene soltanto l’idea che si trovi una nuova utopia litigando col mondo (Giorgio Gaber, “Mi fa male il mondo”).

C’è sempre negli occhi di De Rossi una verità più grande delle sue parole, così come in ogni uomo. In quei giorni ci leggevi tanta sofferenza, l’ipocrisia di chi parla tanto per far vedere al mondo che ha imparato il copione giusto, spendendo e spandendo parole facili dettate da coscienze a buon mercato buone per fare gli articoli nazionalpopolari e per strappare applausi nei talk show di seconda serata. Quasi in prima serata, in diretta Rai, Daniele De Rossi ha sollevato questioni più grandi, anche se la sua intenzione era soltanto quella di portare un fiore. Nel Paese che si racconta attraverso slogan e abitudini concettuali, che sono camicie di forza del pensiero e del cuore, nel Paese della maggioranza, dove in seconda o terza serata fanno sempre lo stesso programma, quella creata da Daniele è stata perlomeno un’occasione per pensare o discutere di cose vere senza pisciarsi addosso nel pannolino usato della retorica. Per giunta da un giocatore di calcio, categoria a cui nell’immaginario collettivo appartengono esclusivamente dei deficienti (dimenticando il grado artistico di Meroni, Garrincha, Maiellaro, Cantona, Vendrame, Zigoni…). Ma tutto questo non dà il senso. C’è sempre negli occhi di De Rossi una verità più grande delle sue parole. In quei giorni ci leggevi tanta sofferenza, quanta è difficile da immaginare, quanta Daniele non lo ha mai fatto vedere, quando è successo – perché dei coglioni gli urlavano a Siena «dov’è il suocero?» – si è preso quel cencio di amore che è la maglietta della Roma e se li è coperti. Gli occhi. Ha baciato la maglia come risposta alle cattiverie. Questo significa la sua dedica.

In quel momento il calciatore che viene dal mare diventa “Il Pescatore”di Fabrizio De André. È una canzone semplice (lalalalallalala…), solo un vecchio che dà da mangiare e da bere a un assassino perché aveva sete e fame. Un vecchio che aveva un solco lungo il viso come una specie di sorriso. Si insegna negli asili e nei campi scout, è d’esempio a milioni di giovanissimi, almeno fino a quando qualcuno nella Repubblica della Pubblica Ottusità, dei tornelli, delle emozioni a pagamento, delle tessere per poter andare a vedere un tramonto, non parlerà di «favoreggiamento» e spiccherà un mandato di cattura postumo al cantautore (per certi versi sarebbe un passo avanti, visto che annullerebbe la borghesissima distanza fra il sentire e il vivere le canzoni o una qualsiasi opera d’arte). Lalalalalallalala… (…) De André non era cattolico, né tantomeno uno che si possa definire credente o religioso, e la stessa cosa vale anche per Pier Paolo Pasolini, morto ammazzato a Ostia – un sacrificio – vicino a un campo di pallone. Definirli anche anticlericali è il minimo, ma erano uomini che avevano un feroce e santo sentimento del sacro, della religiosità (Pasolini, amico di Fabio Capello, definì il calcio l’ultima rappresentazione sacra della civiltà). Erano esseri umani umani. E per l’umanità non c’èverso più bello di quello con cui termina il Testamento di Tito: “Io nel vedere quest’uomo che muore, madre io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre ho imparato l’amore”. Amore, quasi un altro anagramma in questa storia di Roma che è finita. Forse è quello che un tifoso della Roma in una lettera si augurava di trasmettere al proprio figlio, quello che vedeva negli occhi del padre quando raccontavano di Losi come un luccichio, e quello che suo padre vedeva negli occhi del nonno. Non c’è cosa più grande che si possa augurare a un figlio della voglia di vivere: più di diventare ricco, famoso, fortunato, amato, ricordato. La voglia della vita è l’unica ricchezza che non si perde. Daniele De Rossi ha un desiderio per quello che farà da grande, fra mille anni al mondo e mille ancora:«Mi piacerebbe lavorare con i più piccoli, magari allenando una nazionale giovanile». Trasmettergli quel luccichio. Essere d’esempio a milioni di giovanissimi. D’altronde il papà fa questo. È sempre una storia di padri e figli tutta la storia.

Ginfranco Zigoni: “Io lo dico a quelli che se ne vogliono andare via da Roma: ma dove andate? Ma avete visto che avete? Ma vuoi mettere aprire gli occhi la mattina a Roma rispetto a dieci scudetti e dieci Coppe dei Campioni, che ci fai? Lo dico ai miei bambini: la vita non è uno scudetto. Il calcio è un abbraccio: ho una foto dopo un gol fatto col Verona al Milan, di un bambino che entra in campo e mi abbraccia come abbracciasse un papà. Quel bambino adesso ha un complesso rock e mi ha dedicato una canzone: L’uomo con la pelliccia bianca. Io sono un papà di due figli e uno l’ho fatto della Roma, lui come me tifa per De Rossi”.

Giacomo Losi: “Sì, Daniele ce l’ha quella cosa che non si può dire… La vedi, la capisci ma è difficile da spiegare. È quella cosa che fa la differenza, che ti fa innamorare. Io ho un debole per lui da sempre, dalla prima volta che l’ho visto giocare. Per la voglia, l’attaccamento alla maglia, la tigna, il sentimento, lo sento il mio erede. Quando mi chiedono che caratteristiche deve avere un capitano della Roma, io rispondo: le sue. (…) Lui è così, ci tiene alla tradizione, alle cose della Roma. Lo vedi anche quando indossa la fascia da capitano. La vedi quella cosa… Sì… Core de Roma… a lui sta bene”.

Da una lettera di un tifoso della Roma: “Mio padre mi parlava dei suoi sogni da bambino della Roma… Tutti i discorsi partivano con il nome di questo calciatore: Giacomo Losi. Mi raccontava del Core de Roma, di come si affronta la vita. un esempio per chi da bambino si è caricato la famiglia sulle spalle… Mio padre mi diceva che quando mio nonno parlava di calcio, e in particolare di Ferraris IV, vedeva un luccichio negli occhi. Lo stesso luccichio negli occhi lo vedevo nel racconto di papà delle gesta di Losi. Io, Losi, l’ho visto solo nei filmati d’epoca, ma capisco quello che mio padre voleva raccontarmi perché quei suoi racconti divenivano vivi, sembravano un film. Nel mio piccolo ho avuto lo stesso luccichio negli occhi vedendo Daniele De Rossi… la grinta, la caparbietà, la determinazione, l’attaccamento alla maglia… Sto parlando di qualcosa di diverso, che ha poco a che fare con le doti tecniche da calciatore. Parlo di un qualcosa che quando noi tifosi parliamo diventa un luccichio”. Spero soltanto di trovare nella mia vita la forza e il sentimento per poter trasmettere quel luccichio a mio figlio.

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