Pallotta è distante.
Non è una questione geografica. Non solo, almeno. Pure quella conta, visto che risalire sull’aereo subito dopo il 26 maggio, con una tifoseria ancora calcisticamente colpita a morte, non è certo stato uno dei massimi segni di vicinanza. Ma qua si parla di una distanza concettuale, di una mentalità che rimane al di là dell’oceano anche quando pretende di applicare il suo pragmatismo per descrivere il soffio lieve del ponentino, il fondo irregolare dei sampietrini, gli angoli di Trastevere intasati di chiacchiere e tintinnio di bicchieri.
Anche quando parla della sacralità di Totti o della priorità fra i regali da consegnare al Papa.
Le parole dette a Rai International denotano la totale mancanza di quella cosa, diciamolo all’americana, che si chiama “Know how” e che letteralmente vuol dire acquisire la conoscenza di una determinata realtà per poter operare in maniera efficace e produttiva.
Se per te il bacon è uguale al guanciale, potrai fare dei bucatini buoni per i turisti a Via della Conciliazione, ma di fronte ai quali noi reagiremmo come Albertone di fronte al pane con la mostarda e al bicchiere di latte. L’americano che era nel nostro immaginario e che in altri lidi calcistici europei è esistito veramente, doveva portare tanti soldi e dare corpo ai sogni, non pretendere di insegnarci come ragionare.
Non si può essere freddi né tantomeno cinici quando si parla del futuro di Totti; casomai gli si deve rinnovare il contratto a prescindere, non solo per riconoscenza ma anche perché il vero brand è ancora lui, più di tutta la Roma messa insieme.
Ai laziali, nel frattempo, viene naturale assegnare a Lulic il numero 71, per celebrare il minuto del goal e il senso di appartenenza, oltre che di fiera rivalità. È un modo elementare ed efficacissimo di ragionare, anche in chiave merchandising. E non sono americani.
Paolo Marcacci