(L. Franceschini) – Cos’hanno in comune un allenatore di pallone della Serie A ed un coach di basket Nba? In teoria, poco e niente. Eppure, un’eccezione c’è. Il trait d’union è James Pallotta (foto ANSA), presidente della As Roma e co-owner dei Boston Celtics. In Massachussets, dopo anni di successi, il g.m. Ainge ha avuto l’ok dai proprietari per attuare una rifondazione: via Paul Pierce, il capitano, oltre a Kevin Garnett, 15 volte All-Star, e Jason Terry, scambiati con i Brooklyn Nets per giocatori e scelte al draft. Per chiudere definitivamente un ciclo, seppur glorioso, anche Doc Rivers, coach ai Celtics dal 2004, è volato altrove. A sorpresa, l’uomo che guiderà la rinascita dei Celtics viene dalla Ncaa (campionato universitario) e risponde al nome di Brad Stevens. E allora vien facile introdurre la figura di Rudi Garcia.
Punti di contatto Garcia e Stevens sono entrambi figli d’arte: il papà di Rudi era un calciatore professionista, quello di Brad un giocatore di football al college. A loro volta, Garcia e Stevens si sono ritagliati un piccolo spazio negli sport che oggi li vede allenatori: il francese, ex centrocampista, ha giocato per otto anni ad alti livelli; l’americano s’è imposto a livello scolastico e successivamente al college. Prima di diventare tecnici, si sono laureati: Garcia in educazione fisica e Stevens in economia. Altro punto comune: la gavetta. Garcia è passato per Corbeil-Essonnes, Saint-Etienne, Dijon, ed infine Le Mans. Da Lille ad oggi, la storia è nota. Il percorso di Stevens è un romanzo che inizia su una scrivania negli uffici di un’azienda farmaceutica dell’Indiana. Brad nel 2000 abbandonò quel posto fisso per coltivare la sua più grande passione: il basket. Dopo sei anni da assistente allenatore dei Butler Bulldogs, nel 2007 rileva finalmente la guida tecnica della squadra con la quale infrangerà record su record. Chissà se Garcia e Stevens si ispirano alla massima dello stratega cinese Sun Tzu: «Conosci il tuo nemico come conosci te stesso». Forse sì, se è vero che entrambi chiedono ai propri collaboratori di passare al setaccio ogni punto debole o di forza degli avversari. Ma l’aspetto per cui i due sembrano avvicinarsi di più riguarda le relazioni personali che instaurano con i propri giocatori. I sistemi di gioco dei due avvalorano la tesi: entrambi infatti hanno sempre privilegiato il gruppo piuttosto che le individualità. Grandi propositi e belle parole, certo. Bisognerà vedere se i nostri riusciranno a ripetere quanto fatto di buono con Lille e Butler, due realtà lontane anni luce da Roma e Boston.