(L.Panella) – “Sinceramente, con il momento che viviamo, sarebbe il caso di pensare a cose più importanti del mio inno…”. Avrà anche ragione Antonello Venditti, ma la bufera scatenata da una sua dichiarazione da tifoso insoddisfatto della attuale società giallorossa (“Togliete il mio inno”, aveva detto) sta diventando, se non un caso nazionale, quantomeno un tormentone cittadino. Il tam tam è avvenuto alla velocità della luce, ed allora, come spesso succede nella Capitale, scivolano in secondo piano i problemi del traffico, del tram che non arriva. Tutta la città ne parla insomma, le radio rilanciano i commenti, con qualcuno che è passato anche ai fatti, esponendo uno striscione non proprio amichevole sotto l’abitazione del cantante. “Evidentemente ancora c’è qualcuno che non ha compreso che il mio amore per la Roma è un sentimento puro”, commenta un Venditti tutto sommato sereno, abituato a navigare tra gli umori della tifoseria. “Quella scritta non mi turba affatto, anche perché io di questa città conosco bene certe dinamiche, e poi quello che ho detto voleva essere uno sprone e niente più”.
Ci sono accuse nello striscione (‘nel 2001 c’hai magnato’)…
“Perché non si rispetta la purezza dei pensieri altrui, ma c’è sempre il sospetto che uno faccia le cose per guadagnarci. Niente di più falso. Io ho fatto quattro concerti per la Roma, ma li ho fatti gratis, e specifico gratis, organizzati dal mio staff. La mia era una festa per Roma città, nella quale si è inserita quella per la squadra. Dopo lo scudetto del 2001 io ho invitato tutti: tifosi, giocatori, dirigenti, ma dal presidente Sensi, tanto per fare un esempio non presi un euro. Ma anche allora ci furono polemiche”.
E poi l’inno “Roma Roma” è ormai diventato ‘istituzionale’.
“Ma io ho sempre cantato Roma, non ho certo iniziato con l’inno. Devo ricordare ‘Roma Capoccia’ e ancora prima ‘Sora Rosa’, quindi…. Ho fatto mia Roma, come la fai tua anche tu, la fanno propria i tifosi. Roma appartiene a tutti, e non è retorica”.
Ma se adesso la società togliesse l’inno prima delle gare?
“Non ne farei un dramma. In fondo quando abbiamo vinto il secondo scudetto all’Olimpico c’era il bellissimo inno di Lando Fiorini. Poi è nato ‘Grazie Roma’, un canto che accoglie, di gioia. E mi dà ulteriormente fastidio pensare che quando uno fa le cose con il cuore c’è sempre qualcun altro che pensa male”.
Non sarà che essere famosi genera sempre invidie?
“Più che di invidie parlerei di antipatie. Magari perché la gente ti saluta per strada, oppure per motivi politici, anche questo può essere. Il panorama in questo senso è vario”.
Non le pesa, nel suo ruolo di cantautore impegnato, essere associato un po’ troppo al calcio?
“Il calcio è parte importante per la società, però è vero, a volte le mie canzoni vanno oltre. Un esempio: in ‘Giulio Cesare’ faccio riferimento a Paolo Rossi, ma non è l’eroe del Mundial di Spagna come in molti pensano ed hanno pensato. Io ricordavo uno studente morto negli scontri tra studenti e polizia a Roma nel 1966. ‘Un ragazzo come me’, appunto”.
A chi la contesta, vogliamo rispondere con un po’ di Venditti-Roma-story?
“Guardi, la prima partita ero talmente piccolo… Roma contro… mi sembra il Padova di Rocco. Ma ancora ricordo l’effetto che mi l’Olimpico, il sole, il prato verde. Sono sensazioni che non si scordano”.
Insomma, la Roma respirata sin dalla più tenera età.
“L’avvocato Sicardi, mio zio, era uno dei soci fondatori. La sua casa era un rifugio per molti calciatori che, va detto, hanno sempre amato la dolce vita. Mi ricordo del grande Lojacono al tavolo da gioco, ma a me non faceva piacere. Mi incazzavo perché ero un moralista, magari pensavo avrebbero giocato male la domenica se pensavano ad altro. E per protesta rifiutai in regalo il pallone ufficiale…”.