(T. Pellizzari) – Supercoppa italiana e preliminari di Champions League ci hanno dato la prima rinfrescata. E adesso torna il campionato a completare il ripasso del vocabolario parallelo delle nostre giornate (e serate) di spettatori: quello del calcio parlato. Un vocabolario limitatissimo, spesso surreale e per questo irrinunciabile che ha una precisa e semplicissima modalità di creazione e trasmissione.
IN PRINCIPIO – Tutto comincia con un giornalista che utilizza una determinata parola o un determinato modo di dire, spesso nella convinzione di essere forbito ed elegante. Il calciatore e l’allenatore, in genere (e quasi mai per colpa) sono cresciuti senza mai potere studiare troppo (a differenza, in teoria, dei giornalisti) e quindi senza poter cogliere l’assurdità quando non l’inappropriatezza di un determinato termine. E così lo ripetono a loro volta nelle interviste (o nelle telecronache, per i calciatori che hanno la fortuna di diventare seconde voci), autorizzando gli utilizzatori iniziali e quelli successivi a convincersi che quel modo di esprimersi sia corretto, efficace e pure raffinato. Il risultato finale, di cui si fatica a rendersi conto per la decennale abitudine delle nostre orecchie, è una lingua di assurdità omerica, cioè con un linguaggio formulare tutto suo, fondamentalmente riassumibile in due modalità principali.
DUE GRUPPI – Da un lato l’utilizzo continuo di parole ormai sparite dal linguaggio di tutti i giorni. Se ci esprimessimo così in famiglia o sul lavoro – giornalisti sportivi a parte – chi ci ascolta ci chiederebbe se ci ha dato di volta il cervello. Dall’altro lato, trionfano termini e locuzioni che avrebbero un preciso significato e che, invece, da un momento all’altro vengono usati in modo inspiegabilmente errato. Nonostante questo, l’uso improprio di questi termini viene accolto con una sorta di entusiasmo e replicato all’infinito.
NEORETORICI – Il primo gruppo, piuttosto numeroso e noto come quello dei neoretorici, è popolato da utilizzatori massicci di parole il cui impiego persiste ormai solo nel calcio. Ne fa parte per esempio il rammarico. Termine usato sempre, senza alcuna eccezione, al posto di dispiacere. Chi di noi tornerebbe a casa la sera dalla moglie (o dal marito) dicendosi «rammaricato» per il mancato aumento di stipendio? Chi spiegherebbe che «resta il rammarico» per un viaggio rimandato all’ultimo momento o per un arrosto riuscito male? Eppure, calciatori e allenatori non sono mai dispiaciuti, solo rammaricati. Quando si è dispiaciuti ci si lamenta. Che cosa si fa, invece, quando si è rammaricati? Facile: si recrimina. Per un rigore non dato, per qualsiasi decisione arbitrale subìta, per un infortunio. Ma con una raccomandazione, meglio ancora se un’esortazione: che la cosa per cui si recrimina «non sia un alibi». Non una scusa o una giustificazione, sempre un alibi. Anche perché il rischio è che poi i giocatori si facciamo influenzare, e alla gara successiva che cosa potrebbe succedere? Che qualcuno di loro sia evanescente. Anche qui: quante volte vi è capitato di definire così un vostro collega pigro o che tende a imboscarsi quando il lavoro si intensifica? Quando mai vi è venuto in mente di dire che il ragazzo o la ragazza che state corteggiando (e che tende a sfuggirvi) è appunto evanescente? Ma pazienza, l’importante è che al momento di stringere non vi presentiate con atteggiamento rinunciatario. Meglio, molto meglio, essere sempre manovrieri, termine con cui nessuno definirebbe mai un imprenditore particolarmente creativo (o anche semplicemente una squadra di pallacanestro…). Se poi si riesce a dimostrarsi addirittura volitivi, si rischia addirittura di finire sugli scudi… Può sembrare un’operazione molto snob scrivere di tutto questo, ma non è il caso di farne una questione di blasone, favoloso termine – insieme all’aggettivo «blasonato» che ne deriva – indefettibilmente utilizzato per indicare una squadra di grandi tradizioni vittoriose (ma non un giornale, un marchio industriale, ormai nemmeno più i casati nobiliari…).
NEODISTORSORI – Nessuno snobismo, per carità. Al massimo l’intenzione di far partire una piccola riflessione su come (diavolo) parliamo quando parliamo di calcio, sperando che – direbbero i nostri eroi – questo articolo sia un buon viatico per il dibattito, così come una vittoria lo è per il prosieguo del cammino in campionato o un buon primo tempo lo è per un successo finale. E così, un passo dopo l’altro, eccoci arrivati al secondo gruppo di parlanti (i neodistorsori), che usano ripetutamente parole che avrebbero un determinato significato ma che invece hanno finito per diventare dei passepartout per situazioni che nulla avrebbero a che vedere con il loro utilizzo originario. Negli ultimi tempi la regina di queste parole è «importante». Una volta c’era un giocatore importante, una partita, al limite una squadra. Ora è importante quasi tutto: una situazione di gioco, come per esempio una punizione importante; un’occasione da gol importante; un momento della partita importante; un ruolo in campo importante. Ma anche il ritmo: «Abbiamo dato un ritmo importante alla partita», ha di recente spiegato un portiere di serie A. Meglio di lui ha fatto un medico sportivo, l’anno scorso, intervistato sulle trasferte invernali di Milan e Inter in Russia e Azerbaigian: «Sono viaggi importanti», disse per rendere l’idea del rischio-infortuni.
TUTTOFARE – E poi c’è il «dove», l’avverbio di luogo che (probabilmente per necessità di sintesi) ormai accoglie dentro di sé ogni possibile costruzione di frase. Secondo gli storici della materia, l’inventore della formula è un ex campione del mondo del 1982 che, raccontando come gli capitava di passare il suo tempo libero, parlò di «un gruppo di amici dove usciamo spesso a cena». L’involontario anacoluto ha fatto parecchio scuola, come dimostrano tre fra gli infiniti esempi forniti solo dalla scorsa stagione: da «Si crea un 3 contro 2 dove non lo stanno gestendo molto bene» sentito in una telecronaca a «Io penso al settore giovanile, dove avevate detto che puntavate su una squadra giovane e poi l’avete costruita per vincere subito» di un’intervista a un allenatore nel dopopartita. Per chiudere con un altro allenatore, che così ha spiegato una sconfitta: «Oggi è una giornata dove potevamo avere i denti, a un certo punto son caduti e abbiamo azzannato il pane». O forse è di una vittoria che stava parlando. Ma forse.