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IL FOGLIO Il nome della Roma

Rudi Garcia

(B. Di Corrado) – Per capire chi è e chi sarà Rudi Garcia bisogna guardare il campo. Non Totti, non Gervinho, non De Rossi, non Maicon.  Pjanic è il nome. Le rapide in rafting sono una novità da team building pallonaro: buone per le foto e per togliere l’ossessione dei gradoni di Zeman. Pjanc, solo Pjanic: come e dove giocherà questo talento che finora nessun allenatore ha coccolato come si deve racconterà a Roma il nuovo condottiero. Perché Garcia non parla e se parla rischia: è successo alla prima uscita con quella storia di “chi ci contesta è della Lazio”. Guardate Pjanic che è meglio: la chiave d’accesso a un uomo che non si svela, che non si mostra, che sa che Roma non è Lille. Se non lo sapeva già prima l’ha capito quel giorno in ritiro e gli è bastato. Ora tocca agli altri: giocatori, club, tifosi, città. Bisogna scegliere che cosa si vuole: un messia o un allenatore? Un incantatore o un lavoratore? Un personaggio a priori o un personaggio a posteriori? Garcia sta nella seconda categoria, ma senza aver sviluppato ancora gli anticorpi che si fanno rientrare nella prima. Se uno cerca un paragone a ogni costo, il più appropriato è quello con Rafa Benítez. Perché sono amici, perché si stimano, perché hanno un percorso simile, perché hanno maturato l’idea che un allenatore di pallone debba essere ancora uno scienziato dello sport, perché non sono ancora immuni da derive che non sarebbero proprie del loro carattere. Garcia è forte, solido, sufficientemente sereno e preparato per prendere la Roma e farne qualcosa di grande. Non è la follia visionaria di Luis Enrique e neanche la finta incoscienza di Zeman. E’ l’idea che da qualche parte, nella testa dei giocatori che allena, ognuno risolva l’equazione che fa vincere: talento + lavoro + forza fisica + schemi = successo.

E’ moderno, Rudi. Di tutti gli allenatori che sono arrivati in Italia dall’estero negli ultimi anni, è tecnicamente il più affascinante proprio perché non vive di dogmi come poteva fare proprio Luis Enrique. Si adatta, si modella, si plasma: facciamo il nostro gioco, sì. Ma il nostro gioco non può essere sempre uguale perché di fronte c’è sempre una squadra diversa. E’ la forza dell’ovvio che nel pallone diventa novità. Perché per una vita intera siamo stati bombarbati dalle frasi degli allenatori di ogni ordine, grado e intelligenza che hanno ripetuto quella frase come se fosse una certezza universale: “Non importa chi ci sta di fronte, conta soltanto come giochiamo noi”. Garcia smonta questa balla con la semplicità di un libretto d’istruzioni: “Vinci solo se adatti il tuo modo di giocare agli avversari”. Per questo Pjanic. Perché è la variabile. Può giocare ovunque, in ogni ruolo del centrocampo e in ogni zona che fa sta in sù o in giù della trequarti. E’ l’Hazard della Roma. Cioè il giocatore che meglio ha rappresentato la filosofia pallonara di Garcia. Era un talento acerbo, a Lille. Aveva 19 anni e una sacco di incertezze: grandi mezzi e poca convinzione, splendide giocate quasi sempre inutili. Garcia lo mise al centro della sua idea di gioco, tra le linee di centrocampo e attacco, un po’ più avanzato o più arretrato, un po’ più a destra o un po’ più a sinistra. Ovunque servisse c’era uno con due piedi giusti e un’idea di calcio in testa. Diventò un fenomeno: 12 gol e 10 assist da centrocampista. Era il 2011: quel giocatore e quella soluzione portarono il Lille a vincere scudetto e coppa di Francia. Con tutto il resto, sì. Però quella fu la mossa diversa, giusta, decisiva.

Fu anche la rivelazione di Rudi. Fino ad allora era una specie di giovane Guidolin di Francia. Quest’altro paragone parte da due presupposti: il ciclismo e il provincialismo. Il ciclismo perché Rudi Garcia si chiama così in onore di Rudi Altig, il corridore tedesco campione del mondo nel 1966 e idolo del padre di Rudi, José Garcia un ex calciatore professionista con una passione benedetta per la bicicletta. Il provincialismo, invece, deriva dal fatto che sia da giocatore sia da allenatore, Garcia sembrava essere destinato a rimanere ai confini del calcio pesante. Perché la biografia pallonara è modesta e l’ha ricostruita perfettamente Francesco Gorzio: iniziò a Corbeil, prima di passare Viry-Châtillon. Faceva il trequartista offensivo. Nel 1983, il passaggio al Lille. Cinque stagioni e un solo grande ricordo: quella partita al Parco dei Principi, nel 1984, Paris Saint-Germain-Lille, con suo gol decisivo per la vittoria. Altro? Poco. Un po’ più di Benítez che si fermò alla serie C, molto più di Mourinho. Era un cruccio, forse. Fino alla frase liberatoria di Arrigo Sacchi che in una battuta alla fine degli anni Ottanta ha liquidato chiunque abbia sostenuto che non si può essere grandi allenatori se non si è stati grandi giocatori. “Non hanno mai chiesto a un fantino vincente di essere stato prima un cavallo”. Senza saperlo, Arrigo ha liberato una generazione intera di allenatori. Dentro c’è Garcia e il suo amico Benítez, che è stato il primo a chiamarlo subito dopo la firma del contratto con la Roma. Si conoscono da quando Rudi decise di andare a studiare il Valencia di Rafa: gli piaceva quella squadra nuova, agile, veloce, intelligente. Benítez lo fece entrare e gli mostrò i suoi metodi di allenamento. E’ da allora che corrono paralleli, seguendo un filo logico che scavalca la tattica: difesa solida e contrattacco, il tema dominante del calcio di ogni tempo, compreso quello moderno. Pressare gli avversari fa alzare la percentuale dei loro errori. E’ matematico. La matematica aiuta. Rafa faceva i calcoli sulla scrivania della palestra e Rudi pure. Perché hanno dentro l’idea dell’allenatore manager che si pensava potesse funzionare soltanto in Inghilterra. “Non c’è un solo acquisto che non debba essere approvato da me”, ha detto Garcia. Servono calciatori bravi e umanamente costosi. Servono pedine, servono giocatori moderni, intercambiabili, possibilmente silenziosi e disposti ad andare in panchina. Li sceglie con le persone del suo staff che lo accompagnano sempre. Quattro variabili: capacità di adattamento, forza fisica, capacità tecnica, prezzo accettabile. Però quelli che sceglie, li vuole. Gervinho è l’esempio. Come Hazard fu fondamentale nel suo Lille. Lo conosce, lo considera utile all’idea di gioco che vuole portare a Roma. Soprattutto: se deve privarsi di Osvaldo per ragioni che scavalcano la sua volontà, allora si prende atleti dei quali conosce caratteristiche, pregi e difetti. Strootman è un altro esempio: mai avuto, ma visto, rivisto, stravisto, valutato, sezionato. Ci sono poche cose che Rudi pretende da un rapporto con la società. Una di queste è la fiducia nelle scelte di mercato. Guarda caso anche questo lo collega a Benítez. Rafa a Valencia se ne andò quando aveva indicato i tre acquisti che servivano per pensare alla Champions. Uno l’aveva visto nel Maiorca. Era Samuel Eto’o: 17 gol in 32 partite, in una squadra che lottava per non retrocedere. Il direttore tecnico Jesùs Garcia Pitarch, si presentò con in mano il contratto di un altro attaccante. Costava solo cinquecentomila euro in meno. Era l’uruguaiano Nestor Canobbio: in serie B l’anno dopo avrebbe fatto 10 gol in 31 partite. Benítez salutò: “Ho chiesto una scrivania usata ma in buono stato e due seggiole nuove. Mi hanno portato un puff e due lampadine”.

Garcia ha cominciato a lasciare Lille nel momento in cui hanno pensato che si potesse smantellare una squadra che s’era costruita il suo destino fino a diventare campione di Francia nel 2011. Lì s’è rotto l’incantesimo e lì Rudi ha deciso che sarebbe finita. Prima era stata una marcia verso il futuro. Nella sua ricostruzione, Gorzio mette in fila le esperienze: l’inizio di tutto è il 1995, a Corbeil, dove aveva cominciato da giocatore e dove cominciò da allenatore giocatore. Serie C francese, fino al 1999, quando arrivò al Saint Etienne come preparatore atletico. Nel frattempo s’era laureato in Scienze motorie e aveva fatto un’altra esperienza fondamentale: il bordocampista per una televisione satellitare. Prendete nota, perché servirà. A Saint Etienne divenne in fretta secondo e poi spalla di Jean-Guy Wallemme. Mollarono insieme nel 2001 e Rudi finì al Dijon che nel 2000 aveva vinto la categoria Dilettanti in Francia e che al suo arrivo si trovava nella serie C francese: prima promozione nel 2004 quando riuscì ad arrivare anche in semifinale di coppa di Francia. Rimarrà a Dijon cinque anni, prima della chiamata del Le Mans, in Ligue 1. Subito dopo Lille. Campionato 2007-2008. Garcia conosceva la città, la squadra, l’ambiente. Erano loro che non conoscevano lui, però. Perché avevano visto un giocatore modesto e sempre troppo timido di fronte alla porta e avrebbero scoperto un allenatore grintoso, spregiudicato con giudizio, capace di difendersi dando sempre l’idea di attaccare. Lo scudetto arrivato nel 2011 è stato la fine di una scalata. Però non è questo che conta, adesso. Almeno non solo questo. La Roma non l’ha preso solo per quella dimostrata capacità di vincere. L’ha voluto perché Garcia può essere un’idea di allenatore diverso. Un anti Messia, appunto. Uno che fa girare la palla prima delle parole. Uno che non vuol essere la tata di un gruppo di giovanissimi, ma quello capace di gestire una squadra piena di giovani. Non è un dettaglio. E’ sostanza. Numeri, dati. Perché con quelli si spiegano molte cose. L’ha fatto Luca Valdiserri sul Corriere: “1) Nella squadra che ha vinto la Ligue 1 giocavano: Hazard (19 anni), Gervinho (23 anni), Rami, Moussa Sow e Cabaye (24 anni), Debuchy (25 anni) e Mavuba (26 anni). Non è un baby sitter. 2) Garcia e l’attacco: 68 gol segnati l’anno del titolo, miglior attacco, e 36 subiti, seconda miglior difesa. Un equilibrio, un po’ più imperfetto, cercato anche nelle stagioni successive: 72 e 39 (terzo posto), 59 e 40 (sesto).

Si dice che il campionato francese sia meno tattico di quello italiano, ma è vero solo in parte. Nella Ligue 1, proprio come da noi, molti gol nascono da palla recuperata e ripartenza. In questo senso, Garcia non si troverà spaesato. 3) Garcia e il mercato: il Lille vinse il titolo trattenendo i giocatori più ambiti (Rami, Gervinho, Cabaye) e il talento nascente (fu rifiutata un’offerta di 12 milioni di euro del Fenerbahçe per Hazard, poi pagato 40 milioni dal Chelsea). Sul mercato in entrata, Garcia si accontentò dello svincolato Moussa Sow e del prestito dell’ex laziale David Rozehnal. L’attaccante senegalese veniva dal Rennes, con 3 gol all’attivo in campionato: con il Lille ne segnò 25. Il difensore ceco mise insieme 13 presenze. A Walter Sabatini piacerà di sicuro. 4) Garcia e la disciplina: il Lille dello scudetto subì un’espulsione in tutta la stagione, Gervinho per fallo di reazione. Garcia, a Roma, avrà parecchio da fare”.

Ecco, ora riprendete la storia del bordocampista. E’ ora che serve: per gestire tattica, avversari, disciplina dei suoi giocatori, Rudi ha dei metodi suoi. Uno viene proprio dall’esperienza da giornalista-commentatore. Stando in piedi ai margini della linea laterale ha capito che un allenatore in panchina non vede tutto. E’ banalmente una questione di prospettiva. Allora il suo secondo che lo segue dall’inizio della sua avventura da allenatore, guarda sempre mezza partita dalla tribuna e poi riversa le considerazioni a Garcia: movimenti, tempi, posizione in campo dei suoi e degli avversari, velocità di entrata nelle azioni in difesa (quindi i falli). Funziona. Così come sembra funzionare un’altra pratica importata a Roma: nello spogliatoio, Garcia avrà 5-6 saggi, cioè i giocatori più rappresentativi che l’aiuteranno a gestire il comportamento e le difficoltà dell’intero gruppo. Non una cooperativa, ma una specie di consiglio di amministrazione che riferisce all’amministratore delegato che decide. Cioè lui.

Questo serve anche ad arricchire il plico delle pratiche extrapallonare. Quelle del rafting, per capirsi. Perché quello è marketing, o forse pure depistaggio, ma contempla il sottinteso della necessità di avere chi traina e chi si fa trainare. Lui subentra quando capisce che c’è un giocatore che è rimasto indietro. Qui c’è un’altra prassi ai limiti del fantacalcio: la fantasia. Pare che per motivare, Rudi dica ai suoi di convincersi di essere giocatori più forti. Non in astratto, ma con nomi e cognomi. Ad Aurélien Chedjou avrebbe gridato più di una volta: “Devi essere Puyol”. A suffragare la suggestione c’è la testimonianza di qualche altro giocatore che ha raccontato di aver visto Rudi entrare nello spogliatoio con mazzetta di giornali e qualche libro. Un Condensato di frasi e aforismi. Le interviste a Guardiola lette come se fossero il verbo del pallone, oppure gli estratti dell’autobiografia di Rafa Nadal per motivare a migliorarsi. Guardiola e Nadal, cioè la Spagna degli indipendentismi. Perché Rudi non ha mollato le origini. Spagnolo nato intorno a Parigi. Accento diverso dalla propria identità interiore. Dice che casa sua è Garrucha, il paesino dell’Andalusia da dove la sua famiglia scappò. Rudi José ci torna ogni anno. E’ una terra di sole, gamberi, flamenco e pallone. E Rudi è perennemente abbronzato, suona la chitarra, vive col calcio. E’ cambiata solo la pronuncia del cognome. L’accento sull’ultima a tradisce la Spagna per la Francia. A Roma lo possono chiamare come vogliono.

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