

(P.Mei) «Me sò messo a piagne’», sorrideva con la bocca che andava da un orecchio all’altro il ragazzo che appena fuori dal cancello dell’Olimpico aveva il campo sufficiente alla prima telefonata della liturgia del sollievo romanista. «Acqua e birra, acqua e birra»cantilenava a voce alta l’ambulante pronto all’ultimo affare di giornata dalla parte dei vincitori. Dall’altra la birra l’avevano evocata prima della disfida con una Curva Nord volutamente deserta e uno striscione che recitava “Ah, già, c’è il Memorial Derby: finisco la birra e poi entro”. Avrebbero aspettato il fischio d’inizio per tracimare di corsa verso la ringhiera più vicina allo stadio, mentre la curva di fronte già sventolava bandierine gialle e rosse (diversificate in settori differenti) e stendardi freschi di bucato e forse anche di cucito. Perché questo era il derby, prima: un magnifico ricordo, l’ultimo, un feroce incubo, l’ultimo. Il derby che non si gioca ma si vince, per dirla alla Garcia, che alla Roma era capitato già di non giocarlo né vincerlo in quella famigerata e celebrata (punti di vista e di vita) occasione del 26 maggio, “che giornataccia, t’avemo sbattuto la coppa in faccia” cantavano più o meno i laziali, invocando ed evocando Lulic. Il derby che non è cosa da grandi intese, pure se il sindaco si mette una sciarpa bifronte che finisce con lo scontentare tutti: del resto si augurò che la Roma non cedesse Klose…