Il 26 maggio le facce di chi mi stava intorno erano tristi, scalfite dal dolore e bagnate dalle lacrime. Le stesse facce, quelle degli amici di tutti i giorni, che sei abituato a vedere con il sorriso. Ma quel giorno erano provate, perché non c’è cosa più brutta di perdere una partita senza giocarla. Perché la Roma, il 26 maggio, non è mai scesa in campo. Al fischio finale i nostri sguardi erano persi nel vuoto, e nessuno pensava. Perché dentro di noi non c’era più nulla: non c’era più voce, non c’erano pensieri ed il cuore batteva timidamente. Troppe volte eravamo arrivati ad un passo dall’obiettivo e non eravamo riusciti a raggiungerlo. E non esser riusciti a conquistare quella coppa, contro il nemico di sempre, faceva male, malissimo. “Forse Dio si è dimenticato di noi. Forse oggi, come le altre volte, aveva di meglio da fare”, è stato il primo pensiero che mi è sobbalzato in testa non appena il mio io, straziato dal dolore, ha ricominciato a prender vita. Sono passati giorni e settimane, fino a quel 22 luglio scorso, quando in una notte di mezza estate, ci siamo ritrovati per le vie di Testaccio, con gli amici, quegli stessi amici che avevamo lasciato il 26 maggio con le facce tristi. Li abbiamo ritrovati feriti, ma orgogliosi e fieri di tifare una maglia e dei colori che per noi vanno oltre una sconfitta. Quella sera mamma Roma si è vestita a festa e si è illuminata con i suoi colori, quelli della sua squadra e della sua gente. Quando siamo arrivati davanti a Campo Testaccio, ci siamo guardati tutti per un attimo, senza parlarci, ma a volerci dire: “Sì, stiamo ancora qua e non molliamo neanche un centimetro”. Tornato a casa, mi sono guardato allo specchio ed ho visto riaffiorare un timido sorriso sulla mia faccia. Era la prima volta, dopo giorni amari e duri, che le mie labbra tornavano a sorridere. Sono passati poi altri dieci giorni e sono usciti i calendari. Come sempre vado diritto alla prima giornata: Roma-Verona. Poi è la volta del derby: inizio a cercarlo ma non ci metto molto, perché è là, quasi subito, alla quarta giornata. Dentro di me si riaccende quella voglia che si era assopita il 26 maggio. Assopita sì, non morta. Perché non siamo mai morti. E mai moriremo.
Domenica, entrando allo stadio, il cuore mi batteva a mille. C’erano tutti. Tutti quegli amici che il 26 maggio avevano pianto insieme a me. Pronti a chiudere un cerchio durato troppi mesi. Pronti a far capire una volta per tutte chi siamo e di che pasta siam fatti. E carichi come non mai abbiamo vestito la Sud a festa, dando vita ad una coreografia degna del miglior Picasso. “Il mio nome è il simbolo della tua eterna sconfitta”. E via che la Sud è tornata a ruggire, orgogliosa e fiera, agitando al vento 8000 cartoncini gialli e rossi davanti ad una nord vuota, emblema del nulla. Poi l’arbitro ha fischiato, e la Sud ha iniziato a suonare la carica. Una carica che in pochi secondi ha colpito gli undici in campo. E’ bastato poco per capire che non era il 26 maggio. Forse questa volta il Dio del calcio stava dalla nostra parte. Passavano i minuti ma il risultato non si sbloccava. In noi allora è affiorata la consapevolezza, che nonostante non fosse il 26 maggio, senza il nostro apporto, quella partita non si sarebbe vinta. E allora dai che il grido si è alzato ancor più forte. Il canto della Sud è diventato incessante e continuo. Fino al 63′ minuto, quando capitan Totti prende palla e mette in mezzo. Balzaretti colpisce al volo. Palla che supera Marchetti e gol. La Sud è letteralmente esplosa in un urlo liberatorio. Come quello di Balzaretti. Che senza pensarci un attimo ha iniziato a correre ed è venuto fin sotto di noi scoppiando in lacrime. Un pianto liberatorio, di gioia questa volta. Il pianto di chi ha sofferto tanto e vive di emozioni vere. In quel tiro c’eravamo tutti, c’erano le nostre voci, i nostri cuori e la nostra passione. E c’era anche quel Dio del calcio che troppe volte ci aveva abbandonati, ma che questa volta aveva deciso di rimettere le cose nel loro ordine naturale. “Dio esiste” ho detto guardando chi mi stava vicino. Esiste e domenica aveva il numero 42 sulle spalle.
E dopo l’urlo liberatorio il gol della tranquillità. Ljajic tira dal dischetto e segna. 2-0. Il derby è nostro. Roma è nostra, come lo è sempre stata. Perché una coppa vinta e qualche mese di gloria non cambiano la storia. Siamo Roma, e non possiamo spezzarci. Piegarci sì, ma spezzarci mai. Domenica è stato chiuso un cerchio, un cerchio apertosi il 26 maggio e durato solo qualche mese. Poco, come poco sono ed hanno dimostrato di essere i nostri dirimpettai. Simboli del nulla e dell’apparire. La storia dice Roma, e Roma tifa Roma. E se a distanza di quasi 4 mesi ci fosse concesso di tornare indietro a quel 26 maggio, e ci chiedessero da che parte volete stare, pur sapendo il risultato finale, scommetto che ognuno di noi risponderebbe: “Dalla stessa parte”. Meglio un pianto ed una cicatrice con gli amici di sempre ed i colori di Roma sul petto, che una “coppainfaccia” con quelli là. Dobbiamo essere fieri di ciò che siamo. Dobbiamo portare in alto il nome della nostra squadra. Quella squadra che amiamo con tutto il nostro cuore. Quella squadra che anche se troppo spesso ci fa soffrire, dobbiamo amare lo stesso. Perché non c’è cosa più bella di provare sentimenti veri. E sentimenti più veri del pianto del 26 maggio e della gioia di domenica non esistono. Sono emozioni che solo lei può darti. Emozioni che abbiamo la fortuna ed il privilegio di poter provare sulla nostra pelle, che, anche se segnata dalle cicatrici, continuerà a nascondere una voglia ed una passione che dentro di noi non moriranno mai. Viva la pazza gioia di essere romanisti!
Edwin Iacobacci