Che minuto scegliamo? Il cinquanta, perché Ljajic varca la linea laterale per cominciare il suo derby? O il sessantatré, perché il sinistro di Balzaretti impatta un pallone che finisce in fondo all’impensabile, all’imponderabile, all’imprevedibile? Sono lacrime di dedizione, oltre che di liberazione da un incubo, tanto personale quanto collettivo, le sue: l’esultanza è così lunga perché sono quelli i tempi con cui la Storia, maiuscola, riallaccia fili momentaneamente trinciati da contingenze malefiche, anzi venefiche. Oggi Lulic serve solo a contare i cartellini, quelli presi e quelli che meriterebbe, in effetti.
Marchetti ha tentacoli buoni per tutte le occasioni – appuntamenti col destino a parte – mentre l’accerchiamento romanista conta su piedi eccelsi e sulla piacevole consuetudine, ormai, di una ripresa in crescendo, come da copione di questa piccola – per ora- era Garcia. Gervinho trova praterie che non bastano mai alla sua follia, però è apprensione allo stato puro, se solo i piedi non andassero in una direzione tutta loro. Quando Dias imporpora il cartellino di Rocchi, forse la biglia del Destino trova il suo piano inclinato, al punto che Ljajic si permette di non considerare Totti sul punto di battuta: più che di lesa maestà preferiamo parlare di stessa lingua parlata coi piedi, comunanza di eletti. Lazio nel guscio, Roma che pettina le fasce come fossero i baffetti di Balza, la clessidra perde granelli troppo in fretta, per chi la fissa dalla Nord.
Si spezzettano il tempo e il gioco, si scheggiano parastinchi e si agitano troppe mani. De Rossi mura il vantaggio, quando Rocchi decreta un recupero del recupero e i baffetti sono anche quelli di Borriello, al posto di Totti che si gode l’inchino dell’Olimpico. Potrebbero essere due, quando Il numero otto della Roma piroetta e fa gridare al raddoppio, anzi al rigore.
Due a zero: stavolta non bastano neanche i goal di Piola.
Uccidete il vitello grasso: il derby prodigo è tornato a casa.
Paolo Marcacci