(F.Zara) – La chiesa, il villaggio, la fretta, la pausa. Garcia contro Benitez. Due slogan, due filosofie, due modi di gestire, due modi di occupare il palcoscenico mediatico. Poiché in questi tempi affamati di slogan una vita può riassumersi in una frase, vediamo le parole che Rudi e Rafa hanno usato per raccontare se stessi, la psicologia che li muove, il loro metodo di lavoro, e poi dati, cause, pretesti e attuali conclusioni (in porta).
LA CHIESA, IL VILAGGIO – Rudi Garcia, quello che ha rimesso la chiesa al centro del villaggio. In francese l’espressione esatta è: «Remettre l’église sur la place du village» . Molto probabilmente ha origine nel nord della Francia, ma è usato un po’ dappertutto, soprattutto in ambito sportivo. Garcia non è il solo ad utilizzarla. Il 58enne Gervais Martel, presidente del Lens, ne ha fatto il suo manifesto. Questo per dire che non è un’invenzione sua. Rimettere la chiesa al centro del villaggio, cioè riappropriarsi del territorio, (ri)conquistarlo, piantare i paletti, infilare le bandiere sul terreno: capite bene quanta forza abbia uno slogan di questo tipo dopo un derby vinto. Significa: qui i padroni siamo noi.
La frase deriva da un altro tipico modo di dire francese. Questo: «Mettre les pendules à l’heure» . E cioè: Mettere le lancette (si intende dell’orologio) all’ora precisa. Ovvero: fare ordine, sistemare le cose. Esattamente quello che ha fatto Garcia nello spogliatoio della Roma, definito da lui stesso «un ambiente negativo» . Disciplina, regole. Il comitato dei saggi. La Roma ha ritrovato l’equilibrio. La Roma ha rimesso le lancette del suo tempo all’ora giusta. Quella che batte i minuti e le giornate di questo straordinario inizio di stagione. La chiesa, fin dai tempi antichi si pone come punto di riferimento visivo e morale. Per questo sta al centro del villaggio. Perché tutto, compreso il Verbo di Garcia, parte da là. La forma teatrale-religiosa con cui il francese è salito sul palco, sottende una personalità carismatica (ce l’ha) e indica nemmeno tanto implicitamente la consapevolezza di essere – lui – il pastore del gregge, il depositario unico della liturgia da svelare ai fedeli-tifosi. (…)
LA FRETTA, LA SOSTA – Don Rafè sotto l’aria paciosa dell’uomo che quando siede a tavola sbottona con sollievo la giacca e allunga le gambe – ah, che bello ‘o cafè – nasconde la tigna del combattente. Più vecchio di quattro anni e più carico di trofei rispetto al collega francese, Benitez ha avuto il compito, fin da subito, di scegliere la giusta sfumatura da dare al suo personaggio. Era già stato scottato dalla precedente esperienza italiana (Inter), non poteva più sbagliare. Ha scelto, appunto, la serenità. A Napoli ha cambiato metodi di lavoro, ha alleggerito la tensione (giornate libere), ha ridisegnato il perimetro entro cui muoversi. Dopo anni di rigore-mazzariano, il gruppo aveva bisogno di aprire le finestre e tornare a respirare: il gioco di questo Napoli, più spensierato e più portatore sano di spettacolo rispetto al passato, è la conseguenza di questa scelta.
A differenza di Garcia, che ha dovuto fare i conti con un ambiente (la Roma giallorossa) scornato e deluso dopo le ultime desolanti stagioni; e che proprio per questo ha usato slogan forti ( «Abbiamo rimesso la chiesa al centro del villaggio» ), Don Rafè è subentrato ad un allenatore che comunque aveva fatto bene (2° posto l’anno scorso) e si è trovato di fronte ad un ambiente che aveva bisogno di sentirsi diverso e migliore. Se la domanda che ha accompagnato Garcia è stata: chi è?; quella che ha alzato il sipario sull’era Benitez è stata: ce la farà? (sottinteso: a far meglio di Mazzarri). (…)