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REPUBBLICA.IT Viaggio nel business delle scuole calcio. Solo un bambino su 5mila esordisce in A

Scuola Calcio

In Italia sono oltre 7mila, quasi quante le scuole medie. Le rette variano da 300 a 900 euro. Ogni anno iniziano a giocare 300mila ragazzini. Sogni che poi si infrangono sul muro della realtà. “Legittimo sperare, ma i giovani vanno protetti”

I bambini fanno sogni di cuoio. Guardano il pallone come una sfera di cristallo, ci leggono un futuro da star: una maglia importante, una fascia sul braccio, uno stadio in adorazione. Ma la realtà è spietata come un numero. C’è un esercito di minicalciatori con aspirazioni da grandi, 300mila soldatini nelle categorie più piccole del pallone, quelle che hanno nomi da peluche, piccoli amici e pulcini. Solo uno su 4-5mila arriverà a esordire in A, dove negli ultimi dieci anni hanno messo piede per la prima volta appena 622 ragazzi cresciuti nel vivaio e il trend è in calo (solo 36 l’anno scorso). La regola è che quel manipolo di aspiranti eroi, con la maglia sempre un po’ troppo larga, finirà a fare altro: meccanico, panettiere, impiegato, ragioniere. Sognando Beckham, ti ritrovi a lavorare al catasto.

Alla partenza, l’ambizione di tutti è l’azzurro e alimenta il business delle scuole calcio: 7.189 in Italia, numero impressionante se paragonato alle scuole medie (8mila) o elementari (16mila). Le rette annuali variano da 300 a 900 euro e garantiscono ai gestori ricavi a molti zeri. Realtà spesso piccole, che contribuiscono alla formazione e alla crescita dei bimbi. Antonio Piccolo, istruttore della scuola calcio Arci Scampia (tre campi in erba sintetica, 500 iscritti), spiega: “Ai ragazzi meno bravi non bisogna bruciare i sogni, ma neppure alimentare false illusioni. Bisogna insegnare loro che nella vita c’è altro: lo studio, il lavoro, essere cittadini migliori. Hanno come riferimento la tv, i milioni di Balotelli. Giocano perché vogliono arrivare, sono sempre meno quelli che lo fanno per divertirsi. Invece il calcio è bello perché hai degli obiettivi condivisi con un gruppo di compagni, perché dà emozioni anche in Eccellenza, in Promozione, la domenica con gli amici. È legittimo sognare, ma i ragazzi vanno protetti. Prima di tutto da madri e padri, che spesso invece cercano il riscatto della loro vita attraverso i bambini. Poi dai personaggi che s’aggirano per i campi: qui tutti sono agenti Fifa, tutti avvicinano i genitori, tutti fanno i talent scout. In un quartiere come il nostro, abbiamo un dovere in più”.

Le accademie si dividono su tre livelli qualitativi. Il 73% sono centri di base. Per avere lo status di scuola calcio “riconosciuta” servono tecnici qualificati, un medico, strutture adeguate (24% del totale). Più in alto ancora ci sono le scuole calcio “specializzate” (232, il 3%): hanno convenzioni con istituti scolastici e uno psicologo che incontra genitori, istruttori, dirigenti. Spiega il professor Alberto Cei, psicologo dello sport: “La difficoltà maggiore per le società è gestire i genitori. Finché i bambini hanno 8-9 anni, tutto tranquillo. Poi, cresce l’ansia di avere in casa il nuovo Totti e persino i nonni cominciano a lamentarsi. Protestano se il bimbo gioca in una squadra mista, con le bambine, pensano “proprio a me?”. Gli incontri con lo psicologo servono a creare un clima positivo, a elevare la qualità dell’insegnamento”.

Per diventare istruttori, bastano la terza media, un corso di 80 ore, una tesina e un test finale, ma la maggioranza dei tecnici in Italia (14mila su 20mila) ha un patentino Uefa B, utile anche per allenare in serie D. L’Assoallenatori ha istituito corsi sperimentali specifici per i vivai e propone di renderli obbligatori: i grandi tecnici, insomma, dovrebbero prima imparare a lavorare con i ragazzi. “Gli psicologi – prosegue Cei – osservano in partita il comportamento degli istruttori e ne compilano un’analisi, ad esempio valutano se dopo l’errore di un bambino il tecnico dà istruzioni, rimprovera, incoraggia, ignora, oppure con quanti ragazzi si ferma a dare spiegazioni”.

Dai primi calci alla squadra vera la strada è un imbuto. Nella fascia 11-12 anni, categoria Esordienti, giocano 150mila tesserati, il 26% della popolazione maschile in questa fascia d’età. Nel campionato Allievi, 16 anni, ne restano 70mila, meno della metà. Scrematura lenta e inesorabile. Del gruppone partito con l’iscrizione a una scuola calcio e tante speranze, tre su quattro si arrendono molto prima dell’adolescenza. Da bambini è facile trovare una maglia e un po’ di spazio: basta pagare. Quando il gioco si fa serio, restano i più bravi.

Mino Favini, responsabile del settore giovanile dell’Atalanta, lavora sui ragazzi da quasi 40 anni: “Il nostro è un caso particolare, ne abbiamo in prima squadra sette che qui sono arrivati bimbi. Ma nel complesso la selezione è durissima. Prima di tutto ci vuole un po’ di talento, e quello non si insegna. Poi, c’è un percorso di formazione complesso: la crescita fisica la decide il Padreterno, quella atletica, tecnica e tattica, cioè la definizione del ruolo, dipende dal lavoro negli anni. Infine c’è il carattere: bisogna dimostrare di avere intensità agonistica, spirito di sacrificio, capacità di stare nel gruppo. Solo chi soddisfa tutti i requisiti ce la fa. Rispetto a dieci o vent’anni fa, i ragazzi hanno più distrazioni, faticano a concentrarsi sull’obiettivo, vogliono il successo facile. E poi ci sono elementi di disturbo, dai sedicenti procuratori alle famiglie: sapeste come sono terribili le mamme”.

Nel calcio del Duemila, muscoli e centimetri vengono preferiti alla qualità. Il presidente del settore tecnico, Gianni Rivera, ricorda che “l’errore dei vivai è selezionare i giocatori solo sul fisico, bisogna riscoprire la tecnica”. Curiosamente, la stragrande maggioranza dei giocatori italiani è nata nel primo semestre dell’anno, dato evocativo di pericolosi criteri di selezione, all’interno di una classe, basata sulla maturazione fisica. “Ha ragione Rivera – annuisce Favini – ormai in Italia la scelta dei ragazzi si fa solo sull’altezza e la corporatura, io penso che bisogna riportare l’attenzione sul talento, sulla capacità naturale di toccare la palla, che si scopre da bambino”.

C’è infine il limbo di quelli che ottengono un contratto da professionista, ma non girano in Ferrari. Su 13mila calciatori, nove su dieci non dichiarano più di 35mila euro lordi all’anno e 2.547 sono sotto i 5mila. Ci sono mestieri e paghe peggiori, per carità. Ma quelli almeno durano una vita.

Fonte: Repubblica.it

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