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CORRIERE DELLO SPORT Dieci perle per ritornare a sognare

Esultanza a fine partita

(G. Dotto) – Solo cinque mesi fa sarebbe stato uno stupido racconto di fantascienza ambientato nel mondo del calcio. Oggi è quasi realtà. Scrivo “quasi” perché, a dirla tutta, la gente romanista galleggia in un mare di anestetico, nella leggerezza stordita del sogno, sospesa tra un romanzo di Calderon de la Barca e una delle più belle canzoni del “Banco del Mutuo Soccorso”. “Non mi svegliate ve ne prego/ ma lasciate che io dorma questo sonno /sia tranquillo da bambino/ sia che puzzi del russare ubriaco/ Perché volete disturbarmi/ se io forse sto sognando un viaggio alato/ sopra un carro senza ruote/ trascinato dai cavalli del maestrale…/ C’è ancora tempo per il giorno/quando gli occhi s’imbevono di pianto…”. (…)

Era ovunque lutto da 26 maggio. La gente romanista ululava, insultava, berciava. Voleva Mazzarri o Allegri. Una faccia senza luce e una faccia con troppi denti. Chi è questo Rudi Garcia? Uno che viene dalle miniere di Lilla. Cosa vuole? Che ce ne facciamo di una terza scelta? “Laziali a noi? Preparati la fossa”. A morte gli americani. De Rossi è un bollitissimo furbastro. Aveva ragione Zeman. Calci in culo a Sabatini. Il suo mercato? Una confessione di resa. Gli umori erano più o meno questi quando Totti e compagni vanno a Livorno per la prima di campionato. Appena sfumati dal sospetto incipiente che questo Rudi non era poi un così cretino condannato a fare il sergente a vita e la sua Roma qualcosa mostrava. Levene di De Rossi tornano a scoppiargli come quelle di Pappalardo, Sabatini si mette le mani in faccia. Sembra disperazione, è liberazione. Florenzi completa l’impresa romanista. Garcia parla al cellulare o col sovrannaturale? Va be’, un brodino, il caso. Meglio così. Però, sembra una squadra almeno solida.

Era il 25 agosto 2013. Arriva il Verona di Mandorlini. Miralem fa rima con Adem. Pjanic s’inventa un tocco lirico, da svenimento. Ljiajc, il ragazzo colpevole di non essere Lamela, scaraventa un destro che più sfrontato non si può. E sono due. Però! Sei punti. Serviranno quando si tratterà di sgomitare uno strapuntino Uefa. Si va a Parma. Biabany non sa che sta per entrare nella storia. Kevin Strootman si svela. Giocatore laser, centonovantatrè centimetri di furore e faccia da meraviglioso bastardo. Assist per Totti e rigore ciclonico. E sono tre. Nove punti. Calma, gesso, metti la testa nel freezer. Fin qui era solo lo scherzo di un calendario amico

Ora c’è il derby, lo psicodramma, il mai rimosso che torna. C’è da farsela sotto. Rudi Garcia se ne frega, viene da altri mondi, il suo sfregio è un capolavoro: “I derby non si giocano, si vincono”. Cos’è un pazzo, un kamikaze, un provocatore, un Mourinho al cubo di sangue andaluso? E’ proprio lui, Federico Balzaretti, l’uomo che piange senza ritegno, alla sua età, davanti a cinquantamila testimoni. Ma si può? Si può. Lacrime che lo fanno romanista a vita. Adem si prende il rigore, in tutti i sensi, e lo segna. James Pallotta balla in tribuna. E sono quattro. Dodici punti. Via la rogna del 26 maggio. Il capolavoro di Rudi Garcia è a fine partita: “Abbiamo rimesso la chiesa al centro del villaggio”.

Quattro partite e quattro vittorie. E dopo il quattro viene il cinque. Il sospetto avanza, ma nessuno ci crede ancora. Troppe delusioni in serie hanno infartato il cuore dei romanisti. Non c’è tempo per darsi alla pazza gioia e alla pazza sega. La Roma è già a Genova, nella tana dell’uomo che si butta nelle fontane quando vince il derby. La Sampdoria è molto ostile, ma i romanisti scoprono di amare un marocchino e un ivoriano. Si chiamano Benatia e Gervinho. Il primo è roccia, il secondo è aria. E sono cinque. Sabatini fuma e avvisa: “Lo scudetto non ci riguarda”. (…)

Arriva il Bologna all’Olimpico. Se lo ricordano tutti lo scherzaccio dell’anno prima. Quel 2 a 0 che diventa 2 a 3, da manuale del suicida zemaniano. E’ la Sud a rompere gli indugi. “Vinceremo, vinceremo il tricolor”. Al secchio la scaramanzia. Folli di Gervinho. La manita. Il Barcellona? Una versione minore. E sono sei. Si va a San Siro, da quel cagnaccio ringhioso di Mazzarri. Fin qui tutto meraviglioso, sì, ma ora si fa sul serio. Pazienza, doveva finire prima o poi. Finisce che cinquemila tifosi romanisti cantano ubriachi di gioia sotto la pioggia. Le meraviglie di Totti sono una lunga scia. Il terzo gol di Florenzi è un tappo di champagne che schizza nella stratosfera. Questa Roma racconta il meglio di sè, della sua storia, il meglio di Liedholm, di Spalletti e di Zeman. A Fiumicino è già festa. E sono sette. L’onda è molto anomala. Non ci sono più braghe che tengono. Maledetta sosta, spezzerà l’incantesimo. Arriva all’Olimpico il Napoli, la favorita, Rafa Benitez, il pacioccone che ci spezzerà le reni. Numeri e streghe sono contro. Fuori Totti e Gervinho, dentro il gesto sublime di Pjanic. E sono otto.

Udine è storia recente. La natura odia il vuoto. Ma quelli non perdono in casa da una vita, la Roma è senza il capitano e poi senza Maicon, in dieci. Il pareggio sembra già una cuccagna, ma questi sono assatanati. De Rossi che urla e impone: “La vinciamo lo stesso”. L’olandese con la faccia da lupo e l’amico americano. E sono nove. Record stracciati. “Sì, ma quanta fortuna”. Garcia s’incazza. E sono dieci.

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