(A. Catapano) Dopo il botta e risposta domenicale, resta il grande freddo. La distanza con UniCredit è enorme e certamente non l’ha creata soltanto la fuga di notizie, che le parti, peraltro, continuano ad addebitarsi reciprocamente. Anche ieri sera, il d.g. della Roma Mauro Baldissoni ha ribadito che «queste operazioni, qualora fossero confermate, andrebbero trattate con riservatezza, ed è proprio la fuga di notizie che ha fatto infuriare Pallotta. La Roma, comunque, resta sua». La banca rispedisce al mittente l’accusa: «Tutta questa pubblicità – fa sapere una qualificata fonte interna all’istituto bancario –, oltre a irritare la Consob, disturba gli interlocutori cinesi e mette a repentaglio la trattativa. Dunque, che interesse avevamo a farla uscire sui giornali?».
LE ESIGENZE DELLA BANCA In realtà, dalla crepa che si è aperta tra il proprietario americano e il partner bancario emergono due strategie agli antipodi. Che UniCredit volesse liberarsi di gran parte delle sue azioni giallorosse, conservando una quota minima, diciamo il 5%, era ben noto prima che emergesse la trattativa con il cinese Chen Feng. La Roma è un «credito problematico» per la banca: non fa parte del suo core business e, del resto, l’anomalia tutta italiana di possedere quote di un club calcistico non potrà durare in eterno, anche perché ha già creato qualche conflitto di interessi. Ecco perché UniCredit spinge per vendere in tempi brevi le sue azioni. E il miliardario cinese Chen Feng, selezionato dall’advisor Rothschild, è ritenuto un interlocutore «altamente qualificato», molto più del falso sceicco, l’Al Qaddumi cui Pallotta intendeva aprire le porte di Trigoria.
LE RICHIESTE DI JIM La strategia del presidente americano è un’altra. Non ha urgenza di allargare il pacchetto azionario a investitori stranieri, anzi vorrebbe aspettare tempi migliori, quando, magari, la Roma potrà mettere sul piatto la partecipazione alle coppe europee e il progetto del nuovo stadio, che intende presentare entro Natale, anche se la nuova legge si è arenata un’altra volta. E inoltre, Pallotta non vuole mettersi in casa un socio forte, come sarebbe Feng, ma preferirebbe che la quota di UniCredit, sulla quale può vantare un diritto di prelazione, fosse spartita tra due o tre piccoli azionisti, che non gli facciano ombra, «e – ribadisce Baldissoni – scelti con il suo gradimento. Altrimenti per noi la faccenda è irrilevante». Pretese che UniCredit ritiene inaccettabili. «Ma la quota è nostra o di Pallotta?», si chiede la banca. Più che grande, è guerra fredda.