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IL ROMANISTA E Fuffo sbagliò il rigore apposta

Agostino Di Bartolomei

(M. Izzi) «Ho già consegnato il mio rapporto in ufficio, protestò. Holmes trasse di tasca una mezza sterlina con la quale si mise a giocherellare distrattamente». Interrompo la lettura di “Uno studio in rosso” e mi viene in mente che per l’articolo sugli arbitri che la redazione del Romanista mi ha chiesto, non sarebbe male chiedere a Sir Arthur Conan Doyle, d’intercedere per avere la collaborazione di Sherlock Holmes. Ma si sa, Holmes vive a Londra e tutt’al più può occuparsi del Chelsea … peccato, ma non rinuncio a cercare di fornire uno spaccato ironico su quello che è stato il rapporto della Roma con gli arbitri sin dall’alba della sua storia sportiva. Il che spesso implica un paragone con il rapporto che invece hanno sempre avuto alcuni degli avversari della Lupa. Comunque sia, mi sembra giusto iniziare da un episodio esilarante, ma indicativo. Siamo negli Anni Venti. Ad arbitrare un acceso Alba–Lazio venne chiamato l’arbitro Contardo Cornaro. Da lungo tempo appartenente alla sezione laziale della FIGC, aveva, però origini milanesi, era rosso di carnagione e nel colorito dei capelli. Nella capitale aveva già fatto furore perché in una partita del Roman (campionato riserve) giocata al Due Pini, era fuggito seminudo dopo essere sfuggito alla furia dei tifosi.

Nel match tra l’Alba e la Lazio superò se stesso, è Fulvio Bernardini a raccontare cosa accadde: «A metà del secondo tempo Cornaro, che in quel momento era più rosso che mai, corse per la fatica, fischiò un fallo al centro del campo e dalla tribunetta, metà legno e metà muro, partì uno stentoreo:«A pommidoro». Un fischio più lungo e Cornaro si porta sulla linea laterale. Guarda severamente verso la tribuna, poi dice: «Chi è stato?», Silenzio profondo e lui col dito teso verso qualcuno: «Lei, lei, dica un po’ pommidoro». Un tale disse la parola con forza ma Cornaro non riconoscendo la voce dette il tocco finale: «No, non è lei». Tutta la tribuna esplose allora con un solo grido: «A Pommidoro». Dopo quest’incidente arbitrò ancora dimostrando una forza d’animo superiore. Diciamolo pure, bacchettati dall’ironia deflagrante dei romani, le giacchette nere, quando potevano, si vendicavano bacchettando le squadre capitoline. Il 5 gennaio 1935, ad esempio, la Roma è impegnata con l’Alessandria in una lotta impari (per l’Alessandria s’intende), la gara è già sul 5-1 per i giallorossi quando avviene quello che descrive sul Littoriale Pier Luigi Tagiuri: «Fuga di Guaita, il gol sembrava inevitabile. Mosele gli si getta tra i piedi, gli tiene le gambe . Mastellari non esita: rigore contro l’Alessandria. Bernardini calciava volontariamente fuori ma l’arbitro, che non aveva ancora fischiato, faceva ripetere il tiro». Quello che l’articolo non dice è che Fulvio, per il suo gesto cavalleresco stile ottocento, viene prontamente ammonito. Probabilmente si fosse trovato davanti il capitano di uno degli squadroni del nord, Mastelloni di Bologna avrebbe proposto l’encomio solenne. Quando era già in là con gli anni, un arbitro in vena di facezie, nell’ammonire Fulvio gli chiese spocchioso: «mi dia il suo nome». «Lo sa» e l’altro: «Dovessi conoscere il nome di tutti i giocatori delle squadre che dirigo». Fulvio fu espulso e i suoi compagni (giocava allora nello Sparta), gli andarono dietro.

Ancora negli anni sessanta Giacomo Losi doveva rivolgersi ai direttori di gara usando il lei se non il voi e il povero Giacomo rimaneva di stucco quando vedeva Giampiero Boniperti usare tranquillamente il più confidenziale “tu”. Ora, è del tutto evidente che per questi episodi, tra l’altro ne abbiamo scelti, volutamente, alcuni divertenti che non hanno comportato particolari disastri sportivi, non si può parlare di malafede o di una qualunque forma di volontà persecutoria. Il fatto, semplicemente, è che con la Roma i direttori di gara hanno sempre inconsciamente tirato delle rivalse, magari contro le battute dei tifosi o magari verso l’ossequiosità tenuta con alcuni blasonati squadroni (Juventus in testa). Alla Roma il blasone (vale a dire un peso specifico dominante nella stanza dei bottoni) è sempre mancato. L’episodio più clamoroso e qui smettiamo di sorridere, avvenne in campo internazionale, la sera della finale di Coppa dei Campioni. L’arbitro Fredriksson, i protagonisti lo possono testimoniare, si presentò negli spogliatoi con uno spessimetro e a pochi minuti dall’inizio del match, dopo le misurazioni, sentenziò che i tacchetti degli scarpini dei romanisti non andavano bene. Al ridosso dell’ingresso in campo Falcao si presentò da Colucci con gli scarpini in mano chiedendogli come avrebbe fatto a giocare. Immaginate una cosa del genere fatta al Bayern, al Liverpool, o al Real Madrid? In una finale di Coppa dei Campioni? Neanche io … in campo ho però visto cosa ha combinato Fredriksson, oggi osservo cosa combinano gli arbitri della serie A … è il calcio baby e neanche Sherlock Holmes potrebbe farci niente.

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