(M. Bianchini) – Ora possiamo responsabilmente dire con il cuore gonfio d’orgoglio giallorosso che l’A.S. Roma, i giocatori e i suoi splendidi tifosi, si sono iscritti a pieno diritto nel ristretto elenco dei più illustri club europei. In barba ai soloni del football, la stupenda risultanza nasce paradossalmente dallo stregato pareggio con il Sassuolo che non troverà molto spazio nel nostro commento. Sarà un’esposizione scarna, votata ad una visione della concretezza che spera di trovare conforto in menti perspicaci. C’era nell’aria una semplice intuizione rimasta nascosta dentro, soprattutto per quella sorta di prudenza che consiglia l’avvio delle grandi imprese.
Fino alla partita con i granata esistevano solo vittorie e sorrisi. Ma che c’era dall’altra parte della medaglia? Di che stoffa era fatto il carattere alla prova di inevitabili intoppi? E proprio dalle due settimane nere è arrivata la risposta. Due pause, peraltro propiziate da una coppia di “brigantelli” travestiti da arbitri, possono pure considerarsi fisiologiche durante un torneo stressante come il nostro. Esse rappresentano comunque un probante banco di prova che mancava alla definitiva consacrazione. Aspettavamo di conoscere un riscontro al fiuto che va oltre i confini di un paio di giornate storte e questo è puntualmente arrivato. Lo hanno corredato di concetti inediti per le modeste platee del pianto, da non confondere con la compostezza della riprovazione, un grande allenatore come Rudi Garcia e la “materia grigia” del gruppo, Morgan De Sanctis. “Ottima partita, è mancato solo il gol contro una squadra che ci ha creduto fino alla fine. Questo dimostra che siamo vivi ” . Quanto è bastato per scrutarli negli occhi e ascoltare la voce nel dopo gara, transiti fondamentali per consegnare il passaporto della credibilità.
Pur nella comprensibile amarezza, essi hanno sorpreso per la serenità di giudizi che rifuggono da giustificazioni ripetitivamente lagnose, fonti di alibi pericolosi. Questo non significa affatto arrendersi ai vergognosi comportamenti di giacchette nere responsabili di uno scippo da quattro punti, oppure legittimare senza critiche le 4-5 occasioni da gol gettate al vento. Il salto di mentalità contempla pure una giornata assai poco fortunata. Fa parte del calcio. Un passaggio metabolizzato dalla stessa tifoseria , apparsa sorprendentemente matura in linea con il superbo cammino della squadra. Il meritato primato ottenuto senza gli “aiutini” concessi alle dirette rivali, non ha mai valicato i confini di una misurata compostezza. Mai si sono sentite vanterie espresse sopra le righe.
E’ un segnale importante sulla via della rivoluzione disegnata dal presidente Pallotta che conduce all’inserimento nel calcio che conta. La sua “tignosa” perseveranza sta dando frutti che sembravano irreversibilmente acerbi in estate, quando la contestazione più o meno palese accolse lo sconosciuto Garcia e alcuni nuovi arrivati, con sorrisetti ironici e nostalgie del gioco champagne rimasto nella cantina dell’utopia. Certe cose non bisognerebbe mai dimenticarle per poter apprezzare meglio il contesto che vede protagonista la Roma capolista e imbattuta, assente nei pronostici di quelli che sanno tutto del futuro del calcio. Un antico proverbio dice che “l’appetito vien mangiando”. E’ giusto sedersi intorno al tavolo del banchetto. Ma senza invocare abbuffate , innaturali per la continuità di una corretta alimentazione. Questa squadra ferita, ha una gran voglia di chiudere in fretta il capitolo e di riappropriarsi con la medesima rapidità di palloni e scarpini per riprendere a correre. Come fanno i grandi club, senza perdere tempo a piangersi addosso. Solo così si cresce, si diventa più forti della iella, e dei subdoli fischietti ridotti al silenzio da un gol in più.