(E.Audisio) James Pallotta, 55 anni, è stato il primo straniero a sbarcare nel calcio italiano. Sposato, due figli, origini calabro-pugliesi, tra i trader più famosi d’America per i fondi di investimento (hedge fund), una villa che lui si ostina a chiamare casa con 22 stanze, campo da basket, cinema, garage più grande dei giardini pubblici di Boston, è il primo presidente in testa alla classifica italiana che comanda da oltreoceano. Nella stanza delle riunioni con grande vetrata sul porto l’unica immagine alle pareti è una bellissima fotografia di un uomo che cammina nel centro di Napoli.
Pallotta, dopo di lei dall’Indonesia è arrivato Thohir. Il made in Italy è alla fine?
«Quando tre anni fa abbiamo pensato di investire in un club, l’unica opportunità era la Roma. Nel senso che la città aveva un nome e un’immagine conosciuti in tutto il mondo. Quello che si dice un global brand, molto attraente. Le altre società o erano nelle mani di una famiglia come Juve, Inter, Napoli, Fiorentina, o mancavano di internazionalità. Se adesso arriva Thohir non bisogna mica gridare all’esproprio ».
Andrea Agnelli dice che il campionato italiano non ha più forza economica.
«Il fatto che arrivino capitali dall’estero, come in Inghilterra, non è un difetto, una debolezza del sistema, ma un’opportunità da sfruttare. Attrarre investimenti non è mai sbagliato. Poi sì, il calcio italiano non paga più come una volta e ha perso competitività rispetto ad altri paesi. Si è seduto, si è accontentato, si è guardato troppo allo specchio, più local che global. E un po’ alla volta è morto. L’Italia è stata in cima per molto tempo, ma invece di rinnovarsi, studiare, investire, si è rilassata. Manca la voglia di fare sistema, vincono le particolarità, in fondo noi come paese siamo stati uniti molto prima di voi. Guardate cosa ha fatto la Gran Bretagna per combattere e vincere la battaglia contro la violenza e la Germania che in cinque anni ha saputo rivoluzionare stadi, sistema, calcio. Hanno lavorato, cambiato, creduto nel rinnovamento».
Ha il dubbio di aver investito nel paese sbagliato?
«Guardo e constato. Quando vengo a Roma nei giorni della partita vedo lunghe file ai botteghini e mi scandalizzo: la gente ci vuole comprare e noi la ostacoliamo? Bisogna essere sadici, invece di rendere l’acquisto del biglietto più semplice, più veloce, c’è il calvario. Perché l’accesso deve essere così complicato?».
Lei va in giro per Roma?
«Certo. Soprattutto tardi di notte. Cammino nei quartieri, mi piace passeggiare a Trastevere, Testaccio e a San Lorenzo, vicino all’università. Sto anche pensando di comprare casa. E faccio incontri: un ragazzo mi ha urlato contro, gli ho detto: calmati, spiegami, non c’è bisogno di aggredirmi, dimmi il tuo punto di vista, ma senza gridare, gli ho dato anche la mia mail, mi ha scritto in toni ragionevoli. Mi scrivono tanti italiani dalla West Coast, emigrati nella Silicon Valley, sono dovuti andare lontano per veder riconosciute le loro qualità. E mi dico che è un peccato che in Italia, un paese pieno di inventiva e di talenti, non riescano a trovare spazio ».
Il calcio fa guadagnare? Quest’estate il vostro saldo era di 32,4 milioni.
«Abbiamo preso Strootman, capitano della nazionale olandese a 23 anni, Gervinho era stato allenato da Garcia a Lilles, 28 gol in due stagioni, Ljajic è un talento. Credo che sport e business possano andare insieme. Non è irrazionale provarci. Una società può essere gestita con serietà, disciplina e conoscenza del mercato».
Anche senza vendere ogni anno i migliori giocatori?
«Sì. Se si riferisce alle cessioni di Lamela, Marquinhos, Osvaldo, abbiamo fatto un ragionamento. Ora sembra che la Roma sia stata solo fortunata, ma abbiamo lavorato dietro. Volevamo solidità a centrocampo, una spina dorsale forte. Mi dispiace umanamente per Osvaldo che forse per via del carattere passa per uno strambo. È un ragazzo sensibile, dolce, spesso incompreso. Come soffrivo per De Rossi, mi chiedevo come fa uno che gioca in nazionale a faticare a trovare posto in squadra? E Pjanic andava tenuto. Quando la squadra è venuta in America ho visto un gruppo affiatato, pronto ad aiutarsi, contento di stare insieme. L’anno scorso invece la squadra era troppo giovane, senza leadership, ognuno andava per conto suo».
E lei?
«Io ho spaccato televisori dalla rabbia. Quando sono in America seguo la partita da fanatico, mettendomi la maglia della Roma e trovandomi con un po’ di amici fidati. Ho un difetto: mi arrabbio. Ho giocato a basket e non mi piace perdere: si possono avere i conti a posto, ma se non vinci, non costruisci una leggenda».
Eppure i Washington Redskins e i Dallas Cowboys non vincono da una vita.
«Ma hanno radici, bacini di utenza, forte merchandising, diritti tv, audience, rivalità storiche. Se la domanda è: preferisce guadagnare e non vincere il campionato, rispondo no. Però uno scudetto non deve per forza significare follia e bilanci malandati. E in più il calcio italiano all’estero si svende, non è possibile continuare così, troppo sottopagato, cinque volte meno di quello inglese. Alla Lega serve una nuova imprenditorialità, bisogna evolversi, è stato perso troppo tempo».
Si parla di Galliani presidente.
«Ho detto gente nuova, un management diverso, più trasparente. Gli altri campionati, tranne quello inglese, hanno due-tre squadre di vertice, l’Italia almeno il doppio. Andrea Agnelli con cui mi sento ha buone idee. Tante cose devono cambiare: andare alla stadio è una battaglia, perché le famiglie non devono avere diritto a uno spettacolo intenso, ma tranquillo. Ho letto il libro di Alex Ferguson, la parte più bella sono le bevute con gli avversari, a fine partita. È ingiusto che le società paghino il comportamento irresponsabile di un gruppo di tifosi. Chi urla bestialità, chi si comporta male, deve stare fuori per sempre dallo stadio. Perché lo fanno rientrare? ».
Buffon dice che la maleducazione nasce in famiglia.
«Nella mia famiglia cresciuta nel North End, la Little Italy di Boston, nessuno incitava me o le mie sorelle a insultare gli altri. Se lo fai ne devi rispondere davanti alla legge. Non è che il razzismo in America non esiste, i cattivi impulsi ci sono ovunque, ma le società si danno argini e rimedi».
Il Manchester United negli ultimi 5 anni ha fatto amichevoli in 13 paesi e ha un data base di 32 milioni di simpatizzanti nel mondo.
«Ci stiamo muovendo anche noi per rafforzare i social media, l’abbiamo già fatto, lo faremo meglio. I contatti sono buoni, 2 milioni di followers, la nostra piattaforma funziona. Faremo molte iniziative benefiche. Abbiamo rimandato una tournée perché Totti è infortunato e all’estero vogliono vedere lui «.
Sta ancora cercando soci?
«Abbiamo seri investitori pronti ad entrare, per Natale la Roma avrà lo sponsor sulla maglia e per quando io avrò 60 anni ci sarà lo stadio nuovo. Allo stato non chiediamo nulla: abbiamo la terra e i partner. Roma ne ha bisogno». Porterebbe i play-off in serie A? «No. Va bene così, il campionato è lungo e logora i giocatori».
È per l’uso della tecnologia in campo?
«No. L’attesa spezzerebbe troppo il gioco e aumenterebbe la tensione. Sono però perché la si usi per valutare l’operato di in arbitro. Se ha sbagliato decisioni importanti bisogna prendere atto che forse non è all’altezza».
Garcia sembrava un azzardo.
«Lo avevamo in testa sin dall’inizio, solo che non era il primo della lista. Da sempre ho voluto un allenatore straniero che si potesse confrontare più con il mondo che con l’Italia. Volevo qualcuno fresco, culturalmente non troppo coinvolto in un vecchio sistema. Rudi mi ha convinto e si è spiegato in venti minuti di chiacchierata. Mi ha detto cosa voleva e in quale parte del campo. Anche i miei collaboratori in società sono stati fantastici ».
A parte il calcio?
«Ho molte passioni. Arte e musica. Sono cresciuto con le bande rock inglesi, Beatles, Stones, Clash. E non mi sono più fermato. Ho 8 iPod su cui ho caricato 8 mila brani».
E una cantina da sogno.
«Sono un collezionista di vini. Non per soldi, ma per il piacere di aprire qualche bottiglia straordinaria tra amici. Mi piace condividere. Ci ho portato Garcia che da francese sapeva dove colpire e scegliere bene. Però ora sono diventato più un tipo da bourbon».
L’Italia può cambiare?
«Ero a Firenze il giorno dell’attentato in via dei Georgofili nel ‘93, avevo appena visitato gli Uffizi ed ero partito per Parigi. Dove ho visto in tv quella grande manifestazione pubblica contro la mafia, segno che la città non si faceva schiacciare. Si cambia così, tutti insieme».