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GAZZETTA GIALLOROSSA Quando l’arbitro fischia…

Errate valutazioni arbitrali

“Rigore é quando arbitro fischia”. Celebre ed esemplificativo assunto esplicitato dalla voce dell’istrionico Vujadin Boskov, ex allenatore di Ascoli, Roma, Sampdoria e Napoli a cavallo tra gli anni ’80 e metà anni ’90. Si, ma quando fischia? É proprio questo il punto nodale attorno al quale gravitano, dagli albori della storia del calcio in Italia, i pensieri di chi si avvicina allo sport più amato del mondo. Già proprio l‘arbitro, una componente accessoria negli altri campionati europei tanto che molto spesso se ne ignora anche il nome, invece di un’importanza preminente in quello italiano. Il punto sarebbe chiedersi cosa spinge cotanta attenzione verso il direttore di gara ed i suoi fischi ma soprattutto la discriminante che induce la visione della partita da parte dei tifosi italiani, con una particolare forma mentis secondo la quale per vincere occorre essere favoriti dall’arbitro.

La questione del favorire il più forte od il più ricco ha da sempre tenuto banco in Italia tanto che già dagli anni ’70 fu coniato il termine “sudditanza psicologica” per descrivere o giustificare un comportamento arbitrale univoco e reiterato nelle valutazioni. Buonafede sfortunata o scientifica premeditazione? Nella penisola, i direttori di gara non sono mai stati considerati al di fuori d’ogni sospetto. Il servilismo delle giacchette nere se da una parte si spiega con l’attitudine a subire la pressione del più forte, dall’altra rimanda all’impressione di poter fare una buona carriera favorendo un club blasonato. Lo sa bene Rodomonti, sfortunato arbitro di Juventus -Genoa il quale fu reo di aver erroneamente convalidato un gol fantasma ai rossoblu nel 1994. Il fischietto in questione fu casualmente “diffidato” dal dirigere una gara della Juventus per ben 4 anni. Nelle seguenti 8 partite della vecchia signora dirette da Rodomonti,nell’arco temporale dal’ 98 al 2006, si registrarono altrettanti successi bianconeri con 4 rigori assegnati in favore e nessuno contrario. Dunque se la vittoria di una partita quand’anche del campionato è semplicemente dipendente dall’inserire l’arbitro giusto al posto giusto nel momento adatto, allora non ha senso parlare di etica e forse neanche scendere in campo. La vera partita, non si disputa sul rettangolo verde ma si svolge in altre sedi.

Juventus stagione in corso

Gli italiani si sa, sono da sempre maestri di dietrologia. Questo teatrale pessimismo assimilabile ad un’opera lirica cantata con ampi gesti e toni drammatici, in materia arbitrale ha trovato terreno fertile e conferme in Calciopoli. Le teorie complottistiche, alimentate per decenni da episodi dubbi – puntualmente ricondotti ad un’errata, quanto sfortunata e sempre univoca, interpretazione da parte di colui chiamato a decidere in pochi istanti, malgrado il mare di perplessità suscitate nel libero arbitrio delle persone sottoposte ai fatti – hanno avuto un triste e certificato epilogo nel 2006.

Uno scandalo tipicamente italiano, non del tutto approfondito, o meglio sommariamente affrontato, nel quale sono stati dimostrati e messi per la prima volta nero su bianco, quei legami poco edificanti e poco etici tra la classe arbitrale ed i potenti del calcio. Tutto si risolse con un capro espiatorio punito bonariamente ed altri protagonisti rimasti più occulti o per meglio dire meno sfacciati, salvati con una ramanzina e qualche punto di penalizzazione. Nulla più.

Quello che non é cambiato da Calciopoli in poi nonostante la pessima figura a livello internazionale, é la percezione che il calcio italiano malgrado l’evolversi generazionale dell’universo calcistico nei vari Paesi europei nel tempo, sia rimasto un meccanismo corrotto. Un sistema feudale ancorato al volere di pochi: dal duopolio Milan-Juventus degli anni 90 alla temporanea parentesi dell’Inter che andava assolutamente “risarcita” nel post Calciopoli come se ne fosse stata estranea. Gli stessi che per rimpinguare le proprie casse hanno gravato sull’intero movimento calcistico italiano, depauperato progressivamente dei propri campioni, e di ogni prospettiva di crescita. Una struttura appartenente ad un nucleo ristretto di persone volta a tener lontano gli altri investitori, stranieri e non, stanchi di erodere capitali per vedersi negati da agenti esterni quei traguardi a lungo inseguiti, vedendo trionfare sempre gli stessi, a dispetto delle cifre sborsate e della bontà della rosa a disposizione. Per questo salvo fatta eccezione per rari casi – dove si è costretti comunque ad entrare nelle stanze dei bottoni di prepotenza ed a voce alta divenendo una componente di quell’ingranaggio malsano – molti, soprattutto non italiani, sono stati più attratti dalla possibilità di destinare le proprie ricchezze all’estero. Per la semplicità nel trattare e nel costruire il proprio business, senza esser obbligati ad entrare nella “Signoria” del calcio, gestito e comandato da pochi, gli stessi reticenti all’idea di avere un concorrente in più, che possa minare lo status quo, al di fuori di quell’apparato formato in anni ed anni di sotterfugi, compromessi e negoziazioni. La percezione che a decidere il destino di molti, anche in questo caso sia un’elite, non intesa come cerchia ristretta formata dai migliori, più propriamente un’oligarchia selezionata in base al censo. Prende forma la convinzione di dover alzare la voce nelle sedi preposte per ottenere ciò che spetta in campo o per avere quella compensazione valutativa, altro termine prettamente nostrano, atta a risarcire un torto subito, magari a scapito della piccola di turno.

gol muntari.

Un sistema meritevole del declino evidenziato negli ultimi dieci anni , oggetto di pubblico ludibrio in Europa, quando al di fuori dei confini nazionali, le squadre italiane(salvo rare eccezioni atte a convalidare la tesi) dimostrano di non avere lo stesso livello tecnico per competere con le altre compagini europee, sulla carta di pari dignità, per piazzamento conseguito nei rispettivi tornei nazionali di simile coefficiente di difficoltà. Molto spesso, ormai quasi da prassi, i confronti si risolvono con salaci sconfitte da parte delle squadre sotto l’insegna tricolore, con aggregata la beffa di incorrere in imbarazzanti situazioni.

Sanzioni per contatti o lievi trattenute, proibite dal regolamento ma sulle quali in Italia soprattutto al cospetto di determinati colori, la classe arbitrale é solita sorvolare. Come a dire che una data impostazione di gioco con la compiacenza arbitrale acquisisce la condizione di una deformazione professionale, riprodotta ed esportata forse inconsapevolmente anche in Europa, con tutti i rischi del caso: espulsioni per qualche sbracciata di troppo, penalty fischiati contro per intensi abbracci o stropicciamenti di maglie avversarie, in Italia all’ordine del giorno, in Europa invece non tollerate poichè il calcio è uno sport che si gioca con i piedi almeno per 10/11.

Il dubbio é lecito ed a pensar male si commette peccato ma ogni tanto ci si indovina. Il calcio italiano è in declino perché in pochi hanno continuato ad ingrassare sulle spalle di molti, i campioni se ne vanno avendo la percezione di non poter competere lealmente se non vestendo determinate casacche. Il danno di immagine all’estero é inestimabile. Emblematico il rifiuto di Van Persie di giocare nella Juventus per non legare il suo nome ed il suo destino ad una squadra condannata nel merito della vicenda Calciopoli ed il cui allenatore patteggiò una squalifica per omessa denuncia nel computo del filone afferente al calcioscommesse.

Decisioni arbitrali infelici

Ancora fresco l’imbarazzo misto a sdegno del calciatore della Fiorentina David Pizarro,lo scorso anno defraudato di un meritato piazzamento Champions a vantaggio del Milan, sospinto da Balotelli, dai molteplici quanto generosi rigori e da favorevoli decisioni arbitrali:
“Non ci hanno fatto giocare la Champions League anche se l’avremmo meritata.Volevo lasciare l’Italia per questo, ci sono rimasto male anche perchè certe cose le avevo già vissute spesso anche alla Roma”. L’amaro ed impotente commento del regista viola convinto di assistere alla solita storia, propiziata dai soliti mandanti e ratificata da metodici esecutori nella persona della classe arbitrale verso i soliti beneficiari.
Una cultura del sospetto spesso alimentata con noncuranza da episodi reiterati talmente tante volta da assumere istanza oggettiva quando ci si trova a giocare su determinati campi o contro alcune squadre, sempre le stesse. Comportamenti che fanno maturare nelle menti degli addetti ai lavori e di chi è semplice osservatore, una crescente ed ineluttabile percezione dell’esistenza di fattori esterni condizionanti per l’andamento e l’alterazione del campionato.

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L’ultimo a scoprire i malanni nostrani é stato Rudi Garcia d’Oltralpe, oasi felice dove il calcio è un divertissement e l’arbitro una componente marginale. Dopo una sequela di episodi poco convincenti, il tecnico francese della Roma al riproporsi dell’ennesima evidente interpretazione negativa ha candidamente ammesso con il tipico aplomb francese : “Presunto fallo di mano? “Può togliere l’aggettivo “presunto”, quello è fallo di mano. Succede di non fischiarlo, a noi non li fischiano più spesso. Non c’è bisogno di replay per vederlo. Tutto lo stadio e le persone da casa hanno visto che era rigore”

Garcia é stato l’ultimo in ordine di tempo a verificare una realtà che un italiano vive e conosce da quando Berta filava: in Italia non si assisterà alla vittoria del campionato del Montpellier come avvenuto in Francia qualche anno fa. Non si leveranno calici al cielo per applaudire il Wolfsburg, improbabile vincitore della Bundesliga a bissare l’impresa di svariati anni prima del Kaiserslautern, sempre nel massimo campionato tedesco, retrocesso l’anno seguente. Non sarà possibile la qualificazione in Champions League della Real Sociedad in luogo di una più quotata e blasonata rivale, in virtù di un’annata fortunata a dispetto della penuria di investimenti. Non c’é avvicendamento sul gradino più alto come in Inghilterra dove gli arbitri sono disgiunti da quella poco trasparente commistione con i vertici societari, per questo al di sopra di ogni sospetto, con numerose squadre ogni anno intente a battagliare finchè la formazione più forte o la più meritevole non si imponga. In Italia non c’é spazio per la variabile imponderabile che altro non raccoglie a fine anno se non inutili ed improduttivi (per le casse societarie ed i risultati sportivi) attestati di stima, al netto del mancato conseguimento di traguardi, cullati, accarezzati, meritati ma poi sfumati tra un fischio ed una bandierina, a volte alzata ed altre no, sotto il tallone del più potente, se non in campo sicuramente al di fuori di esso.

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L’occasione della sferzata si è persa nel 2006 e a distanza di qualche anno il tempo sembra come essersi fermato. Stantio riguardo le solite situazioni, i soliti vantaggi, i soliti svantaggiati. Il solito, come sempre. “Bisogna che tutto cambi affinché resti come é”, recita un verso del Gattopardo, romanzo capolavoro di Giuseppe Tomasi da Lampedusa,ironica, inclemente e precisa rappresentazione dei mutamenti storici-sociali del periodo risorgimentale quanto mai di attualità anche in epoca contemporanea, nella misura in cui il calcio offre uno spaccato della società che viviamo. A mutare profondamente, è stato Ranking Uefa dell’Italia, inarrestabilmente regredito di giorno in giorno, di pari passo all’inadeguatezza dell’impiantistica per le manifestazioni sportive, ormai desueta per non dire anacronistica bisognosa di tempestive e proficue riforme. La lineare e dolorosa diaspora di campioni dal Bel Paese, andati ad arricchire il patrimonio tecnico di altre nazioni dove si guadagna di più e si compete in un sistema sano, dimostra tutta la pochezza di un campionato – un tempo il più bello del mondo – oggi ridotto ad un cumulo di macerie, informe massa di calce e mattoni, in mano ai soliti personaggi, con la convinzione trasversale che questo sia ancora vittima dei soliti fischi o non fischi da parte dei nuovi fischietti facenti capo alle stesse strutture di un tempo mai passato.

A cura di Danilo Sancamillo

Twitter: @DSancamillo

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