(M. Izzi) Ci voleva Dino Viola, per scardinare il potere juventino. Che uomo era? E’ lui stesso, in un’intervista concessa a Gianni Melidoni nel 1983, a schizzare un ritratto autobiografico tanto sintetico quanto illuminante:«Sono stravagante perché vorrei abolire tutte le formalità, anarchico perché detesto le leggi repressive, indipendente da tutti e tutto a costo di fare la più umile professione. Ho una fede profonda e sono gelosissimo delle mie iniziative, nel bene e nel male. Insomma: un uomo libero non sempre liberale». Che fosse anarchico e indipendente Viola lo dimostrò da subito sfilando ai maggiori club italiani (non ultima la Juventus), Carlo Ancelotti.
Se c’era un presidente in grado di giocare da pari a pari al tavolo di Giampiero Boniperti, quello, insomma, era proprio lui. C’era poi, fondamentale ricordarlo, un allenatore di nome Nils Liedholm. Il Barone, tanto per confermare che a volte il caso è Dio, aveva messo piede in Italia per la prima volta, proprio a causa della Juventus. Correva l’anno 1947 e la Vecchia Signora festeggiava il cinquantesimo anniversario di fondazione. Per celebrare l’avvenimento venne organizzata un’amichevole tra i bianconeri e gli svedesi del Norrkoeping. Liedholm e i suoi compagni, probabilmente snobbati, dimostrarono di avere una marcia in più ed espugnarono Torino battendo la Juventus per 2-0. Il premio per la loro grande impresa fu un viaggio a Roma per visitare le bellezze della capitale d’Italia. Liedholm, dunque, ha visto per la prima volta Roma grazie ad un successo ottenuto contro la Juventus. Ed è singolare che quello che è stato certamente il più grande allenatore di tutti i tempi si sia sempre ostinatamente astenuto dall’accettare di guidare i bianconeri. Quando gli veniva chiesta ragione di questa particolarità della sua carriera, rispondeva che effettivamente di occasioni per accomodarsi sulla panchina bianconera ne aveva avute più d’una ma che aveva sempre rifiutato perché: «La Juventus è già tanto forte così, insieme saremmo diventati imbattibili». Era una battuta ma lasciava intravedere, evidente, una filosofia di vita. Vincere con la Juventus sarebbe stato troppo facile, sarebbero state, per l’appunto, le vittorie della Juve, non quelle di Liedholm … meglio dunque cercare di vincere piegando i bianconeri.
In appena due stagioni questi due uomini, Viola e Liedholm, costruiscono una squadra in grado di battere la Juventus. Fa parte di quella squadra, Maurizio Turone. A dire il vero, Maurizio non lo chiama nessuno, neanche in famiglia. Per tutti è semplicemente Ramon. Sul campo, poi, anche conquistare il cognome era stata una fatica. I giornalisti, chissà perché, avevano preso a scrivere Turrone e per fargli capire l’errore c’era voluta tanta pazienza. E’ genoano Ramon, lo sanno tutti: «Si nasce genoani – va dicendo – anzi l’unico modo per sentirsi genoani è nascerci, coi tempi che corrono: diventarci è impossibile. Ma la Roma la porto nel cuore». La porta nel cuore anche perché il 10 maggio 1981, fu lui, idealmente, a coronare l’inseguimento che la Roma portava avanti dal 15 marzo 1931, da quel benedetto 5-0 che fu il primo titanico tentativo di “sovvertire” il potere calcistico bianconero. Aveva fumato la sua sigaretta rilassatoria Ramon, quel 10 maggio e capelli al vento, con la maglia giallorossa numero 4 era sceso in campo per dare il suo contributo. Poi era arrivato il suo tuffo e il gol di testa che decideva il campionato. Aveva rubato il tempo a tutti, persino al divino Falcao, perché nella Roma dell’anarchico Viola e dell’ironico Liedholm, il gol del trionfo non poteva essere scontato, neanche quando faceva rima con grandezza. A segnare non è il Divino Falcao ma un Ramon Turone mezzo coperto dal fango e dall’acqua del Comunale di Torino. E’ un gol meraviglioso perché porta con sé un urlo di vittoria represso per troppi anni. E’ però, soprattutto, un gol annullato ingiustamente che da allora continua a rimanere l’epicentro di una rivalità sportiva che non conosce tramonto. La Roma non mandò giù quella sconfitta. Non l’ha mai mandata giù. «Ridatemi il campionato del gol di Turone» disse Paulo Roberto Falcao, intervistato dal Romanista, commentando i fatti di Calciopoli nel 2006, quindi 25 anni dopo. E nel campionato 1981-82 fu proprio lui a siglare il gol che diede la vittoria alla Roma a Torino, in casa della Juventus, approfittando di un pasticcio della difesa bianconera.
La rivincita, in realtà, era arrivata pochi giorni dopo il “fattaccio” di Turone. Il 28 maggio 1981 infatti la Juventus e Roma si erano nuovamente affrontate nella semifinale d’andata di Coppa Italia e al Comunale aveva prevalso la Roma con un gol di Ancelotti, confermando di essere la squadra più forte e più meritevole per quella stagione. Al ritorno finì 1-1 con i gol di Cabrini e Di Bartolomei e poi la Roma vinse quella Coppa. Gli anni 80 regalarono altre grandi sfide. Nel 1982-83 la Juve vinse entrambe le partite di campionato, ma il titolo andò alla Roma. Nel 1983-84 i bianconeri si ripresero lo scudetto, ma la rovesciata di Pruzzo al 90’ del match di campionato a Torino terminato 2-2 resta una delle più grandi gioie consumate in casa della Juve. Indimenticabile il 3-0 all’Olimpico nel 1986, con uno stadio completamente giallorosso che bastò per far sentire sconfitto Platini, come lui stesso raccontò, prima del calcio d’inizio. Per tornare a vincere a Torino bisogna aspettare la Coppa Italia 1990-91, gol di Berthold e Rizzitelli. In campionato invece bisogna aspettare il 23 dicembre 1995, gol di Balbo e autogol di Ferrara. Scolpiti nel cuore anche il 2-0 nel 1998-99, con Zeman in panchina, il 2-2 firmato da Nakata e Montella nel 2001, cui seguì pochi mesi dopo un altro 2-0 a Torino grazie a Batistuta e Assunçao, il “Zitti, quattro e a casa” di Totti del 2004 e il colpo di testa di Riise al 90’ del 2010.