(G. Romagnoli) – Una dovuta premessa: non sarò imparziale. Perché: I love Gervinho. Bisognerebbe scriverlo con il cuore tra il soggetto e il complemento oggetto, come nel logo di NY. Se esistesse sulla tastiera. Esiste solo sul campo, dove gioca lui, buttandocelo. Non sono romanista e non mi ha mai contagiato l’estetica estatica di Garrincha, Best o Meroni: li paragonavano ad animaletti e finivano schiacciati. E’ una sorta di passione letteraria piuttosto: quella che ti fa preferire Yanez a Sandokan (se poi il casting arruola Philippe Leroy e Kabir Bedi, saluti), Sancho Panza a Don Chisciotte.
Ecco Gervinho, con licenza poetica, è una creatura di “Gervantes”: uno scudiero sognatore, che trascina l’eroe indolente oltre i confini della sua fantasia, aggiungendoci la propria, che è tanta, poiché lui è Signore dei Tranelli e Principe dei Varchi, ti inganna e passa. C’è stata, in questo suo memorabile inizio di campionato, una Roma senza Gervinho e una con Gervinho. La prima vince, la seconda pareggia nel finale. Mentre tutti aspettavano il ritorno di Totti era quello di Gervinho a far riprendere il discorso da re e ritentare l’assalto (almeno per un po’, dai) al trono della Juventus. Si è visto domenica, con la Fiorentina. Dopo una convalescenza e un rientro con il freno a mano tirato, si è lasciato andare e ha fatto due cose che chiamano assist ma sono mezzi gol. Gervinho ha la vocazione dello scudiero: apre e non finisce. Se tocca a lui farlo, sbaglia il rigore decisivo per la Coppa d’Africa.
Se può farlo fare ad altri, è infallibile ne renderli non fallibili. Gervinho scarica. Non la responsabilità, ma il piacere dell’ultimo tocco. E’ uno dei pochi panda che vanno in quel territorio patrimonio dell’Unesco che è il fondo campo e da lì, un centimetro prima della fine, rimettono dentro per il tiro del compagno piazzato, provocando il torcicollo ai difensori e lo strabismo ai portieri perché in quel preciso momento soltanto l’attaccante guarda avanti.
Nei gol della Roma alla Fiorentina lo fa due volte. L’anomalia suprema è che lo faccia la prima volta sulla fascia sinistra, la seconda su quella destra. La prima d’esterno, la seconda con l’interno. Mancano il passaggio di tacco, di testa e la nasata della foca monaca, il resto del repertorio c’è tutto. Nell’intervallo tra le due azioni decisive apre porte che non ci sono e s’infila furioso nei corridoi, sterza in corsa come se si fosse ricordato di aver dimenticato il cellulare a casa, qualche volta purtroppo tira. Gervinho è immenso quando passa: prima l’avversario e poi la palla. E’ perfetto nell’innescare Destro e finalmente si crea la combinazione tra fulmine e tuono che Liajic o Borriello riducevano a petardo. Ma è nell’azione del primo gol che s’annida un attimo sublime. Gervinho è in area, sul lato sinistro, e ha davanti il terzino. Si mette nella posizione più temuta dal difensore: la souplesse del ciclista da pista prima dello sprint.
Lì è come essere un portiere di fronte al rigorista: bisogna indovinare da che parte la metterà. Ma anche allora, può non esserci niente da fare. Con Gervinho non ce n’è. Sceglie lo spiraglio più chiuso, quello che porta al fondo, alla sua tana. Guida la palla con il destro e, se fosse un altro, proverebbe a crossare di sinistro, perché mancano tempo e spazio per fare altro. Invece danza sull’orlo del precipizio, lo guarda con la stessa passione di Thelma e Louise nel finale, ma non abbocca al suo richiamo. Resta in gioco, rientra dall’aldilà, fa ancora un passo e la mette in mezzo. “Basta spingere” scriveva il predecessore Bruno Conti. Florenzi non spinge, Il silenzio di Gervinho lo Yanez del pallone che parla col dribbling, con i suoi assist ha fatto rinascere la Roma. Mentre tutti gli altri esultavano, ha abbassato la testa sfiora, tocca a Maicon completare il mezzo gol di Gervinho. E adesso l’attimo, guardatelo: mentre il mezzo goleador esulta, l’altro mezzo, quello vero, abbassa la testa e continua a camminare.
E’ Florenzi, un ragazzo con il senso della giustizia, a indicarlo, a segnalare al popolo in tribuna e ai compagni in campo che il merito è dello scudiero. In quel momento Gervinho non sembra neppure felice: è un bambino al calar della luce quando il cortile si spopola. Incarna la gioia mentre gioca, indossa la malinconia appena smette. Non importa se ha fatto segnare, la palla è ferma, gli amici perdono tempo, il pomeriggio se ne va. Sandokan si prende la perla, Yanez il mare. Qui è la differenza, qui la grandezza. La perla è un fatto, il mare una promessa. E’ un’idea più grande di qualunque cosa già realizzata: si chiama idealismo, significa pensare che domani faremo qualcosa di migliore, ci proveremo, ancora una volta e ci riusciremo. E infatti, nel secondo tempo, lo rifà, ancora meglio e la Roma vince. Gervinho riabbassa la testa e sogna altri mari, a…