C’è qualcosa che manca. Un anello che non tiene, una piccola, senza saper dire quanto piccola, zona d’ombra.
L’allusione è alla questione arbitrale che sta caratterizzando la stagione giallorossa: non sono misteriosi gli episodi, ovviamente, che appaiono anzi nitidi ed incomprensibilmente (…) ignorati da direttori di gara che al riesame delle immagini appaiono sempre in posizione favorevole e con visuale sgombra. Sono incomprensibili le (non) reazioni della dirigenza romanista, l’attendismo protratto e dilatato rispetto a quella che dovrebbe essere una presa di posizione dialetticamente ferma, severa se non addirittura veemente.
Qualcuno potrebbe rispondere che si tratta di una scelta stilistica: ah, già, lo stile. Questo vocabolo che a Franco Baldini e alla prima Roma post-sensiana era caro al punto tale da essere anteposto alla sostanza dei risultati. Quella era una Roma così campata in aria, così carica di autocompiacimento velleitario che alla fine era pure naturale che si preoccupasse prima di leggere Kant (o chi veniva scambiato per Kant…) e solo in un secondo momento di riempire lo stomaco. Del resto era fatta apposta per darsi e farsi dare schiaffi, che qualche sodale baldiniano dal piglio radical-chic e dalla supponenza illimitata scambiava per passi di avvicinamento al sol del giallorosso avvenire. Quindi pure quando l’arbitro infieriva – è capitato più di quanto non sia stato sottolineato – era motivo d’orgoglio tacere, godendo per le sofferenze del nuovo corso.
La Roma di quest’anno però, alchimia felicissima e un po’ casuale assemblata attorno all’immensità di Totti, merita protezione rabbiosa a tutela delle sue ambizioni divenute realtà.
Ci sarebbe venuto naturale, dopo la negazione di un rigore cristallino come quello di Bergamo, scagliarci lancia in resta contro ivertici dell’AIA, nei panni di Baldissoni e compagnia dirigente; soprattutto perché l’episodio arriva al termine di un mese di partite pregiudicate dai Banti e Damato di turno.
Siccome la storia, non solo contemporanea, ha ampiamente dimostrato che il calcio italiano è una palude melmosa che – soprattutto politicamente – non si può attraversare con la scarpetta di camoscio o il tacco dodici, ci chiediamo cosa stia aspettando la dirigenza giallorossa per farsi sentire.
Siccome escludiamo che non abbiano capito ciò che a qualunque tifoso appare lampante, allora si accettano interpretazioni su quale sia il reale motivo di tanto, insopportabile silenzio.
Gli scudetti, a volte, si decidono un po’ anche a parole e ogni tanto prendono la strada di chi li reclama.