Innanzitutto, scomponiamo il quadro cronologico per annotare che al minuto 54 la Roma assume la fisionomia che la maggioranza avrebbe voluto sin dal fischio iniziale di Rizzoli: Torosidis a sinistra e Destro in campo, con Ljajic, Totti e Gervinho, anche se senza più Pjanic. Siamo già sotto di due, a quel punto: somma di ingenuità e concorsi di colpa evidenti. Tanto nell’occasione del vantaggio bianconero nel primo tempo, con il piroettare indisturbato di Tevez che in un fazzoletto riesce a inventare un corridoio per la sovrapposizione indisturbata di Vidal che ha tempo di scegliersi l’angolino; quanto al momento del raddoppio, con Bonucci che si smarca con agevolezza dopolavoristica e va a raccogliersi una Befana anticipata alle spalle di un De Sanctis incredulo, basito nello sguardo che rivolge a Castan e compagni.
E dire che la prima mezz’ora era stata da guscio e forchettina: Juve nella propria metà campo come un mollusco abbarbicato a protezione del vantaggio in classifica, Roma arrembante alla ricerca di spiragli che nascono dal piede di Totti e che Gervinho e Ljajic quasi rendono decisivi.
Che sia quel “quasi” l’unico particolare a mancare ancora all’appello affinché si possa parlare di una Roma non solo ambiziosa ma anche permanente al vertice? Certamente si, è quello il soldo che manca alla proverbiale lira delle velleità da scudetto.
Lo dimostra il fatto che la Juventus è stata scolastica, anche leggermente appannata in fase iniziale; sempre però spietata nel colpire ogni volta che la Roma – clamorosamente – ha prestato il fianco. Il fianco e i nervi, visto che De Rossi si sforbicia dal campo da solo e Castan prende a pugni la prestazione di stasera. Se Ljajic non li segue anzitempo sotto la doccia, è solo per il calcolo diplomatico di Rizzoli e del proverbiale buon senso.
Che dire? La partita della Roma è rimasta in embrione, il cinismo della Juve le ha impedito di farla crescere.
Meditare sugli errori: il passo obbligatorio di chi vuole diventare definitivamente grande.
Paolo Marcacci