La prima impressione, pronti-via sotto un sole palliduccio e moscio come un pandoro, è che Maicon abbia cominciato pressando fin sotto i cartelloni pubblicitari.
Il Verona gronda agonismo, certo è che uno che si chiama Cacciatore sia più adatto per gestire un ristorante in collina, con tanto di pappardella al cinghiale, che per trotterellare sui campi di Serie A tentando di collezionare malleoli.
Ljajic in punta di forchetta, Destro a cercare varchi, Gervinho a colpi di acceleratore per scaldare il turbo.
Non che accada molto, ma è pressione costante e crescente, per la banda di Garcia; ogni tanto i Mandorlini-boys trovano il rovesciamento, con Toni a fungere, da par suo, da boa di profondità, chilogrammi d’esperienza e bel ricordo per la gente giallorossa.
Prove generali, alla mezz’ora, per l’innesto della settima marcia di Gervinho: guadagna il fondo da sinistro e pesca la mattonella di Destro; non è goal per il riflesso di Rafael, ma tutto il Bentegodi capisce che la combinazione può essere letale.
Non fa in tempo, la prima frazione di gioco, ad abbassare la tendina, che il copione si ripete, con Ljajic che beneficia di un altro cioccolatino gerviniano, da scartare come sempre a velocità supersonica. Zero a uno, con Mandorlini più torvo del solito.
Si riparte, con la Roma che controlla senza affondare e il Verona che pressa e randella; bello e intenso lo scambio di parastinchi tra Naingollan e Halfredsson. Proprio quest’ultimo, dopo un disimpegno cervellotico della retroguardia romanista con Castan che si attarda nello specchiarsi palla al piede, beneficia di una conclusione che va a baciare l’angolino dopo una carezza leggera del guanto di De Sanctis.
Meritato, immeritato? La Roma di Garcia non ha tempo di chiederselo, perché i tempi di reazione li detta Gervinho, che dopo undici minuti, vale a dire al sessantesimo, lascia esterrefatta la difesa veronese come Giulietta al balcone: due accelerazioni laterali e poi destro in torsione all’angolino: non prendeteci per pazzi se scomodiamo il fantasma di Romario a USA 94.
Il tutto, un minuto dopo che Pjanic aveva rilevato Nainggolan: in un modo o nell’altro, quando entra basta il nome a cambiare la storia, anche senza un Bonucci da lasciare sul posto.
Il resto è un regalo di Garcia al Bentegodi immeritevole: un quarto d’ora di Totti, aperture serene come il cielo di maggio, pulizia di giocate, orizzonti che si aprono in ripartenze sapienti: invece di fischiare, veronese, stropicciati gli occhi.
Il rigore? Forse anche noi ci saremmo adirati, a parti invertite, però è pur vero che Torosidis quando parte è raro che lo si possa fermare regolarmente. E poi, ribadiamo, quando ricapita di vedere un’esecuzione così dal dischetto, con l’angolino basso che si ingravida di pallone come il serpente quando ingoia la preda?
Finisce con un settore ospiti che ha dato spettacolo anch’esso e che si gode l’omaggio di una squadra che torna a cogliere in trasferta il fiore delle ambizioni più grandi.
Tutto bene, la Roma corre più dopo che prima, quando entra Florenzi accorcia un campo che per l’avversario s’allunga.
Fatece largo.
Paolo Marcacci