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IL MESSAGGERO C’eravamo tanto odiati

Franco Sensi

(P. Mei) – È come un film: anzi, fu davvero un film, classe 1932. Il titolo? “Cinque a zero”. Faceva riferimento al risultato che la Roma aveva ottenuto nel 1931 al Campo Testaccio e che aveva vendicato il 2-3 contro la Juventus nel 1930, prima sconfitta nella casa del “còre giallorosso”. La storia era romanzata, i divi d’epoca, come Milly, Osvaldo Valenti e Angelo Musco. Fra gli interpreti anche Volk, detto Sigghefrido alla romana, perché aveva il cognome tedesco ed era un panzer d’area che segnò il primo gol al Campo Testaccio e pure il primo nei derby. La trama cinematografica lo fece terzino. Ma non è solo storia di vittorie e di sconfitte quella fra la Juventus, che ostenterà la sua nuova casa, e la Roma che sta immaginandone una propria. È anche la storia di tradimenti dal proprio accampamento, di dispetti di mercato, di torti subiti. Torti misurabili in centimetri e in scudetti, tanti i primi e pochi i secondi in riva al Tevere, viceversa in riva al Po. Uomini chiave in questa lunga vicenda che ha più di quarant’anni.

CAMPIONI IN TRANSITO
Fabio Capello compare due volte: da giocatore e da allenatore, curiosamente facendo la strada nello stesso senso, dal Cupolone alla Mole Antonelliana. La prima volta, era la Roma di Marchini, quando partì, gioiello fra i gioielli, venduto alla Juve che era la Fiat che non era Marchionne ma l’Avvocato con tutte le differenze del caso, insieme con le promesse Spinosi e Landini, portando da quest’altra parte una pattuglia guidata da Del Sol, sole al tramonto. Il popolo giallorosso declinò la sua rabbia: Marchini hai fatto più danni di Mussolini, il che per un imprenditore filosinistro era il massimo dell’insulto. La seconda volta Capello riprese il cammino sabaudo dopo aver vinto lo scudetto ed aver dichiarato «Alla Juve mai: noi siamo la repubblica, loro la monarchia». Si vede che la Corte bianconera aveva ciambellani ben preparati, giacché convinsero il Mister al trasferimento, armi, bagagli e quadri.

AVVOCATI E AIUTINI
Avrebbe vinto anche lì, Capello: ma sono i famosi scudetti depennati, quelli di calciopoli. Perché questa volta fu provato quel che non era mai stato provato: alla Juve che non aveva più l’Avvocato non bastarono gli avvocati. Questioni di aiutini. Come fu quello del celebre gol di Turone, che era “bbono”, come tutti i romanisti (e non solo) sanno, a dispetto delle tecnologie di oggi che, come la riesumazione di una salma e il dna, possono raccontare fuorvianti ricostruzioni.

L’INCONTRO IN CAMPIDOGLIO
È la famosa “questione di centimetri”, il righello d’oro inviato da Boniperti a Viola e restituito con il biglietto alla Bernard Shaw: «Il righello serve ai geometri come te, non agli ingegneri come me». Grande, Viola. Come il pastore tedesco, vero lupacchiotto, che all’Olimpico una volta azzannò Brio, forse stimolato dalla maglia bianconera. Se Viola visse di fioretto, Sensi di forcone: ma si prese la sua rivincita con lo scudetto del 2001, quando fu finalmente liberato Nakata e il giapponese poté giocare contro la Juve. Curioso che la sentenza liberatoria dell’extracomunitario di troppo fosse stata richiesta dalla Lazio. Nakata entrò a partita iniziata, fece un gol e ne propiziò uno di Montella. Uno schema, gli chiesero? Risposta: no, ma in panchina ne abbiamo parlato tanto. Poi venne il caffè da Veltroni, sindaco juventino che voleva la pace fra Rosella Sensi e Moggi; poi venne un altro calcio, quello che è ora, meno sanguigno, più dedito agli affari di Borsa che di cuore. Ma Totti e De Rossi non ci stanno. Il popolo nemmeno.

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