(G. Fontana) – Quest’estate si è chiuso un giro, un quadrato, di fantasisti: Erik Lamela è passato dalla Roma al Tottenham, Gareth Bale dal Tottenham al Real Madrid, Mesut Özil dal Real Madrid all’Arsenal e Gervinho dall’Arsenal alla Roma. A giudicare dalle cifre, la squadra che ci ha perso è la Roma: Bale è stato pagato 100 milioni, la cifra più alta nella storia del calcio. Özil è andato per 50 milioni all’Arsenal, che non aveva mai speso la metà di quei soldi per l’acquisto di un giocatore. Lamela, pagato fra i 30 e i 35 milioni, è diventato sia l’acquisto più costoso della storia del Tottenham, che la cessione più redditizia di quella della Roma. Il povero Gervinho, invece, è stato pagato 8 milioni: meno di un dodicesimo di Bale. Invece è il giocatore del momento. In Coppa ha segnato, di rapina, il gol con il quale la Roma ha battuto la Juventus. E guardate che “la Roma elimina la Juve grazie a un gol di rapina di Gervinho” sembra una di quelle usate a scuola per spiegare la figura retorica del paradosso.
1. Da dove viene
Gervais Lombe Yao Kouassi è nato in Costa d’Avorio nel 1987. Dopo un’infanzia di partite giocate senza scarpe, perché troppo costose, viene preso all’accademia calcistica dell’ASEC di Abidjan, ed è lì che Gervais diventa “Gervinho”, alla maniera dei brasiliani. L’ASEC è la squadra di Jean-Marc Guillou, il primo ad aver lanciato un allenatore francese che segnerà la carriera di Gervinho: non è Rudi Garcia, è Arsène Wenger. Wenger è stato il vice di Guillou al Cannes negli anni 80, e i due sono sempre in contatto. Fra l’ASEC, il Beveren (squadra belga, ora fallita, gestita poi dallo stesso Guillou) e l’Arsenal si instaura un giro di calciatori, passaporti e denaro per il quale la Fifa indagherà, per poi assolvere, anche Wenger. Intanto fra l’ASEC e il Beveren passa mezza nazionale ivoriana: da Yaya Toure, al portiere Barry, ai due terzini Eboué e Boka, ai centrocampisti Romaric e Yapi Yapo. E lo stesso Gervinho.
Al Beveren gioca da attaccante puro, in una squadra in cui diciassette ventiduesimi sono ivoriani. È lì che si parla per la prima volta di un suo possibile passaggio all’Arsenal di Wenger, ma finisce in Francia, al Le Mans, la squadra nella quale è esploso il più grande calciatore della storia ivoriana: Didier Drogba. L’allenatore di quel Le Mans, una piccola squadra che gioca bene, è Rudi Garcia. A fine anno arriveranno noni, il miglior risultato della storia del club, e Garcia viene ingaggiato dal Lille. Gervinho viene nuovamente accostato all’Arsenal, e lui dichiara: «so che Wenger mi segue da quando avevo 17 anni; lui è un grande allenatore, e quando un grande allenatore dimostra di apprezzarti, questo ti dà la fiducia necessaria a giocare ai migliori livelli» – qui c’è molto del carattere di Gervinho – «io farei di tutto per andare all’Arsenal, è il club che ho sempre sognato, e sarebbe il giorno più bello della mia vita». Solo che anche questa volta il giorno più bello della sua vita non arriva, anche questa volta il trasferimento rimane solo ipotetico (si parlò anche di un interesse del Milan), e, nel 2009, Gervinho raggiunge Garcia al Lille.
Nel Lille, Gervinho si consacra definitivamente, così come il gioco – veloce e offensivo – di Garcia. Inizialmente gioca con un centravanti classico, lo stesso De Melo che aveva avuto al Le Mans, poi sempre più spesso schiera un 433 con tre seconde punte. È in questa configurazione tattica che Gervinho dà il meglio di sé, partendo largo ma sempre vicino alla porta. Nelle due stagioni al Lille segna anche diversi gol, 18 in entrambe fra campionato e coppe. Ma non è solo questo: Garcia dà fiducia a Gervinho. Lo celebra quando gioca bene, ma soprattutto lo difende quando gioca male o fa qualche sciocchezza, come quando – nell’aprile del 2011 – si fa espellere per uno spintone a un difensore, lasciando al Monaco la vittoria e al Marsiglia di avvicinarsi a un punto dal Lille. E, forse ancora più importante, lo fa giocare sempre. Non è che a Gervinho manchi il carattere o il coraggio – in campo è grintoso, se perde un pallone cerca di andarlo a riprendere – ma ha bisogno di fiducia ed entusiasmo per essere libero di provare a giocare come sa.
A fine 2011, finalmente, arriva “il giorno più bello della mia vita”: Gervinho va all’Arsenal, dove incontra Wenger, l’allenatore che lo seguiva da quasi 10 anni, il suo mentore da lontano. Solo che, come spesso accade, ciò che uno sogna per una vita non si rivela all’altezza del sogno. Alla prima partita con l’Arsenal, Gervinho prende un cartellino rosso per una manata a Joey Barton.
All’inizio è titolare, ma segna poco ed è decisivo solamente in un paio di partite. A metà stagione è in panchina, e subentra quando c’è bisogno di attaccare, spesso partendo da più lontano per la necessità di allargare il gioco. Gervinho ne soffre, non è la classica ala che va sul fondo e crossa. La faccenda si acuisce l’anno successivo, con l’arrivo di un vero centravanti come Giroud: Wenger concede sempre meno fiducia a Gervinho, e quando entra in campo gli chiede di fare ciò che fa Walcott, un giocatore con pochi fronzoli: velocissimo, ma anche molto freddo e bravissimo nell’uno contro uno con il portiere. Ma Gervinho non è Walcott, e la cosa non funziona. Altre volte viene impiegato come vice Giroud, ma neanche quello è il suo ruolo, e le cose vanno sempre peggio: i tifosi dell’Arsenal sono già da tempo insofferenti per le molte occasioni sbagliate, e Gervinho diventa la personificazione del giocatore in grado si sbagliare qualunque gol.
2. Il diritto di sbagliare
Ora, se avete capito come funziona Gervinho, sarà chiaro che la sfiducia segue alla sfiducia e ne genera altra, in un circolo vizioso che non si può spezzare se non ripartendo da zero: questo lo sa Gervinho, lo sa Wenger, e lo sa Rudi Garcia che se lo porta alla Roma. Quando ne parlano, tutti sottolineano questo aspetto, la peculiarità di Gervinho, la necessità di sentire la fiducia attorno per giocare: con Wenger non ha funzionato. La fiducia è il tema che torna sempre, lui dice: «mi avrebbe aiutato se Wenger avesse dimostrato più fiducia in me», e ancora: «lo rispetto come allenatore, e sono contento di aver giocato con lui. Ma con Garcia potrò giocare di più e avere più fiducia». Garcia non smette di dire che bisogna dargli fiducia. Anche Wenger dice di avere deciso di cedere Gervinho «perché era sfiduciato. Perché è un giocatore molto creativo, un dribblatore istintivo, e se giochi così devi avere un sacco di fiducia in te stesso per essere efficiente. Negli ultimi sei mesi per lui era molto difficile esprimere il proprio talento, la sua fiducia in sé stesso. Così mi sono chiesto: riesco a tirarlo su io o ha bisogno di una nuova sfida per ritrovare fiducia?».
Questa è la verità più elementare su Gervinho: per rendere ha bisogno di fiducia. Non per un vezzo, non per una debolezza di carattere. Ma perché è proprio il modo di giocare di Gervinho a richiedere riconoscimento, sicurezza, anche tolleranza. Il mestiere di Gervinho è creare occasioni dove non ce ne sono, creare superiorità numerica quando i difensori sono di più, creare – non rifinire o concludere qualcosa che già c’è – a scapito di quella che sembra la realtà di un momento di gioco. E quando tenti di battere la realtà, tante volte è la realtà che vince. Perciò Gervinho sbaglia, tenta, non riesce, qualche volta s’intestardisce. Ma non è un suo difetto, è più propriamente un danno collaterale. Gervinho deve sapere di avere la possibilità di sbagliare, deve sentirsi in diritto di sbagliare. Altrimenti diventa un giocatore inutile, uno come tanti altri (un giocatore simile, in Italia, è Alessio Cerci).
3. Roma
Così Gervinho decide di tornare a fare quello che aveva fatto prima che arrivasse il giorno più bello della sua vita, e torna – per la terza volta – da Rudi Garcia. Roma è una piazza perfetta per ricominciare, ma al tempo stesso molto pericolosa. Perfetta perché è tutta la Roma a dover ricominciare, perché le aspettative sulla squadra – mai come quest’anno – sono basse. Perché se le cose cominciano ad andare bene, l’entusiasmo sarà enorme. E, chiaramente, perché c’è Garcia. Ma un posto, “una piazza”, pericolosa. Se a inizio anno le agenzie di bookmakers avessero accettato scommesse su quale era il primo giocatore che sarebbe stato fischiato dalla propria curva, non c’è alcun dubbio che Gervinho avrebbe avuto la quota più bassa. Un giocatore poco concreto (in un momento in cui i tifosi romanisti erano stufi di due anni di bel gioco inconcludente e bramavano cinismo), arrivato a Roma dopo un fallimento e con la reputazione di “cocco dell’allenatore”. Tanto più che lo scetticismo riservato a tutta la squadra ha in Gervinho il principale obiettivo: il paradosso di una città che di solito esalta qualunque giocatore dalle capacità questionabili, che ora ha fatto un bagno di realismo e non crede più a nessuno.
Per questo, perché le cose vadano bene, c’è bisogno che si mettano subito nel verso giusto. Ed è così che succede. Nelle prime partite Gervinho è devastante: fa anche gol e assist, ma soprattutto sembra imprendibile, tanto che per fermarlo devono strappargli la maglietta (come ha fatto Perez, del Bologna). Bastano poche giornate e tutti cominciano a studiare come limitarlo, non è il giocatore più decisivo, ma è certamente il giocatore che più costringe gli avversari a limitare il proprio gioco. Complice una maggiore attenzione degli avversari, complice un suo infortunio, complice un infortunio di Totti e il ritorno di Destro, Gervinho è un po’ calato. Ma non è preoccupante, perché oramai le cose hanno preso il verso giusto: l’emblema di questo è stata la partita con il Catania. Gervinho ha sbagliato due gol facili, uno facilissimo, e uno clamoroso. Poi, mentre tutta la squadra cercava di farlo segnare, ha segnato per sbaglio. Ljajic gli ha messo un pallone perfetto in mezzo, e lui ha svirgolato il pallone, che gli è finito sullo stinco, e ha preso un rimbalzo strano che ha superato il portiere. Lui non ha neanche esultato, ma tutta la squadra è andata ad abbracciarlo (è bello vedere la faccia di Totti, e soprattutto di Garcia, che dicono «ce l’abbiamo fatta»), mentre il pubblico esultava come se quello non fosse il quarto gol di una partita già vinta. Allora Gervinho che, evidentemente, si vergognava un po’ per il gol che aveva appena fatto e stava già tornando a centrocampo, si è voltato verso la Curva Sud e ha fatto un inchino. È per questo che, oggi, e contro molte possibili previsioni, Roma è l’ambiente perfetto per Gervinho. Quel genio pasticcione è stato adottato. Il fatto che sbagli tanti gol è diventato quasi una nota di colore. Perché se la Roma vince, siamo tutti felici. Ma se segna Gervinho, allora sì che la festa è completa.
Garcia ora racconta che per lui «all’inizio è stato difficile, nessuno credeva fosse un buon acquisto». D’altra parte c’è una certezza: Gervinho gioca sempre. Garcia non lo toglie mai. Se c’è uno sicuro del posto non è Ljajic, né Florenzi. Non è Destro, e neppure Totti. È Gervinho. Ed è forse la nemesi perfetta che, in un suo momento di forma non eccezionale (che passerà, con l’arrivo della primavera, come è naturale per giocatori simili), in una partita in cui aveva fatto meno del solito, riesca a segnare con un tocco da centravanti contro la Juventus. Un gol che aveva provato a fare, esattamente identico, contro il Livorno, per poi svirgolare il pallone e regalare un assist involontario a Destro. Ma non è diventato un giocatore decisivo, lo è sempre stato.
4. Perché Gervinho è il giocatore più utile della Serie A
Gervinho è un giocatore molto particolare, Garcia non esagera quando lo definisce un giocatore “unico”, il che è assieme un pregio e un difetto. Anche il ruolo di Gervinho è molto difficile da stabilire, se vi capita di vederlo giocare, vi stupirete di quante volte finisca in posizione di centravanti. La migliore posizione di Gervinho è quella in cui può sempre ricevere il pallone. Questo non vuol dire che lo debba ricevere sempre, anzi, Gervinho è tutt’altro che un regista, e tocca molti meno palloni di altri giocatori che hanno caratteristiche simili. Ma è importante la possibilità di ricevere il pallone, perché questo costringe le difese avversarie ad adottare contromisure e, inevitabilmente, lasciare spazi. La sua caratteristica più immediata è certamente la rapidità. Ma questo è ciò che dà adito all’equivoco più diffuso su Gervinho, e cioè che sia un centometrista. Non è così. Certo, è un giocatore molto veloce, e lo può fare se c’è la possibilità di un contropiede.
Ma Gervinho non è Bale, o Walcott, o Cristiano Ronaldo, specie con la palla. Anzi, per la velocità che ha, Gervinho è un giocatore che gioca con il pallone molto vicino ai piedi. Quando si allunga il pallone spesso sbaglia: spesso non sbaglia i tiri, proprio non arriva a tirare perché si allunga il pallone con i tempi sbagliati e il portiere (o l’ultimo difensore) lo anticipa. Al contrario di quello che fanno molti esterni classici, lanciare il pallone in avanti e rincorrerlo, Gervinho tenta sempre di avere il pallone nel raggio d’azione del suo calcio, vuole sempre avere la possibilità di cambiare direzione, di andare da un’altra parte. Se fosse un’automobile si direbbe che ha un’altissima “velocità massima”, ma che la sua qualità migliore è “l’accelerazione”. È velocissimo, ma ancora di più, è agile: per questo è così forte nello stretto, ama i triangoli (difficile trovare un giocatore così bravo nel dribbling e al tempo stesso così altruista), e accentrarsi.
Il dribbling di Gervinho, poi, è molto particolare. Non fa la classica finta di corpo, è raro che faccia un doppio passo. Ma se c’è un giocatore che “punta” l’uomo, quello è Gervinho. Lui avanza caracollando e saltellando verso il giocatore avversario, non deve ingannare il difensore suggerendogli il lato sbagliato, perché è abbastanza rapido da minacciarli entrambi. La finta di Gervinho non è “ti faccio credere che vado di qua, e poi vado di là”, la finta di Gervinho è “sto per partire, temimi”.
Probabilmente in Serie A c’è solo un giocatore così bravo, forse anche più bravo, nel dribbling da fermo: Juan Cuadrado. Ma Gervinho, rispetto a Cuadrado, è molto più bravo nel gioco senza palla, soprattutto nel trovare il tempo dell’inserimento alle spalle del difensore, caratteristica fondamentale per uno che gioca come lui (ogni tanto penso al livello di perfezione che avrebbero raggiunto con il Totti di qualche anno fa). È per queste ragioni che se viene schierato da ala pura, come ha fatto Wenger all’Arsenal, o anche come ha provato Garcia recentemente in un 4231 con Totti dietro a Destro, non dà il suo meglio. Naturalmente questo crea inevitabili problemi di collocazione, perché un allenatore si ritrova un giocatore che deve giocare vicino alla porta, ma che non ha la freddezza di un attaccante puro. Perciò l’allenatore deve decidere di sacrificare uno di quei due o tre posti vicino alla porta avversaria per un giocatore che non garantisce gol.
Ne vale la pena? La risposta di chi scrive è, evidentemente, sì. Non è soltanto il fatto che l’esistenza di Gervinho, anche quando apparentemente inefficace, libera spazi per gli altri attaccanti. Ma che questa costringe il gioco avversario e ne limita le soluzioni. Per questo Montella – che allena una squadra con un gioco ben definito, e perciò restia ad adattarsi agli avversari – ha detto, molto causticamente, «o lo leghi, oppure c’è poco da fare». Naturalmente non è vero, anche contro Gervinho ci sono delle contromisure. Bisogna “fare densità”, e cioè tenere i difensori vicini alla propria linea di porta e, ancora più importante, i centrocampisti vicini ai difensori (l’ha fatto la Juventus in campionato). In questo modo Gervinho non può ricevere palla nelle sue posizioni preferite, e lo si costringe ad andare a prendere il pallone largo o – più spesso – vicino al centrocampo. Allo stesso modo questo dà la possibilità di raddoppiare, anche triplicare, la marcatura quando gli arriva il pallone in una posizione più pericolosa. Ma, certo, la necessità di prendere tutte queste contromisure per un giocatore solo dà la misura della sua grandezza. Se al posto di Gervinho ci fosse stato Destro, la Juventus avrebbe certamente giocato diversamente e in modo più simile a come gioca nel resto della stagione. E stiamo parlando della squadra italiana nettamente più forte delle altre, non di una squadra che è abituata a difendersi dalle individualità avversarie.
Ovviamente difendersi in questo modo riduce enormemente le soluzioni offensive, e molto semplicemente non si può fare se si ha la necessità di segnare. Inoltre è una notevole spada di Damocle, non soltanto tattica, ma anche psicologica, l’idea di “non poter andare in svantaggio, perché altrimenti loro hanno Gervinho”. Ed è questo che rende Gervinho indispensabile al gioco di Garcia, oltre al fatto che – molto semplicemente – l’esistenza di Gervinho in campo rende la squadra avversaria più vulnerabile. Nelle prime 12 partite (quindi prima della sosta di novembre), complice il suo infortunio, la Roma ha giocato più o meno gli stessi minuti con Gervinho in campo (548 min) e senza Gervinho (534 min). Con Gervinho ha segnato 19 gol. Senza ne ha segnati 7. Nell’ultimo mese e mezzo, come detto, Gervinho – così come la Roma – è parzialmente calato, e la statistica si è un po’ riequilibrata: 1244 minuti con Gervinho, per 34 gol: cioè un gol ogni 36 minuti. 568 minuti senza, per 8 gol: cioè un gol ogni 71 minuti. Questo vuol dire che, anche quando non partecipa direttamente all’azione, con Gervinho in campo la Roma ha precisamente il doppio di possibilità di fare gol (senza contare che con Gervinho 90 minuti in campo la Roma ha giocato con Juve, Inter, Milan e Fiorentina, e senza Gervinho ha giocato contro Chievo, Udinese, Torino, Sassuolo). Per questo gli si possono perdonare le occasioni sciupate, perché come ha detto Garcia, “nel calcio, senza Gervinho, quelle occasioni non esistono”.