(E. Sisti) La Roma non andrà più di moda come due mesi fa ma è meglio che le avversarie a lei più interessate se ne facciano una ragione: la Roma non è sparita, non è morta, non s’è buttata giù, non ha nemmeno abbassato la testa. Il fatto di essere stata travolta a Torino poteva mandarla dallo psicanalista e sarebbe stato un conto salatissimo perché in quel caso si sarebbe dovuta curare una depressione collettiva. Invece non ce n’è stato bisogno. La depressione è rimasta una parola vuota, lontana. A Trigoria non l’hanno fatta entrare. Cancelli chiusi alla malinconia, alla paura, alla crisi d’identità. Segnali di grande personalità.
Doveva ripartire ieri, la Roma teoricamente depressa, e l’ha fatto in piena luce, anche interiore, con energia fisica e mentale, conquistando il maggior numero di punti nel girone d’andata di un campionato a 20 squadre. Il modo in cui è scesa in campo contro il Genoa, il modo in cui l’ha fatto a pezzi già nel primo tempo con la spettacolare rovesciata di Florenzi (25’), che per qualche secondo si sarà sentito Hugo Sanchez, il gol n. 231 di Totti (30’) e il contropiede magistrale, in ricordo di quello di San Siro contro l’Inter, concluso in rete da Maicon (43’), il modo in cui ha chiuso la partita all’inizio del secondo tempo con la “nuca” di Benatia (7’), che con Florenzi è il capocannoniere giallorosso con 5 reti, il modo in cui anche quando avrebbe potuto permetterselo non ha rallentato: ebbene tutte queste attitudini dimostrano che c’è un dopo a tutto, anche alle sconfitte più meritate, anche alla brutta figura di terminare una partita importante in nove. Spiritoso e autoironico il commento di Totti su Florenzi: «Se faccio io un gol così smetto di giocare, perché non mi rialzo più…».
La Roma di ieri non aveva De Rossi ma è stato un bene perché così Garcia ha scoperto di poter scomporre il proprio centrocampo, secondo necessità. Ieri la squadra era disposta praticamente con un 4-2-1-3. Davanti alla difesa hanno giganteggiato Nainggolan e Strootman, poco più avanti c’era Pjanic. La soluzione potrebbe, chissà, portare a un futuro avanzamento di De Rossi, che quando giocava più vicino alla porta era un fenomeno negli inserimenti (come Perrotta). L’olandese in particolare era così ispirato nel ruba e riparti che avrebbe strappato via il pallone dai piedi di chiunque, anche in tribuna. Florenzi ha corso in orizzontale e in verticale. Anche Gervinho lo ha fatto: peccato che l’ivoriano cada spesso vittima di una personale maledizione che lo porta a vivere partite tutte sue, sganciate dal contesto generale. La sensazione è che se gli va male la prima accelerazione (ieri Perin gli ha respinto un gol quasi fatto due minuti dopo l’1-0 di Florenzi) Gervinho perde il senso della realtà e comincia a combattere contro i mulini a vento, cercando solo di entrare in porta con la palla. Va detto comunque che la Roma di ieri aveva davanti un Genoa pietrificato, senza Gilardino e forse appagato dai tre punti conquistati col Sassuolo.
Gasperini ha contribuito a gettare altro panico nei suoi facendo debuttare Cabral (che parlerà anche sei lingue ma in campo cammina) e cambiando dopo appena 12 minuti la disposizione tattica: non più difesa a tre ma a quattro (come se si fosse reso conto solo a partita iniziata che la Roma aveva il tridente). La medicina s’è rivelata più dannosa del malanno. La pietrificazione si è completata e il Genoa, ballando sul cornicione della sua pochezza tecnica (espulsione a parte, ora Matuzalem si muove come il suo nome ha sempre fatto presumere), è franato in pochi minuti. Senza mai prendere in considerazione l’ipotesi di andare a conoscere un po’ più da vicino De Sanctis. Per più di un mese, affrontando rivali abbordabili, la Roma ha annaspato fra i resti delle sue riconosciute e un po’ perdute bellezze, che molti ritenevano irripetibili. Qualcuno aveva già banalmente chiesto, fingendosi esperto di cinema, la testa di Garcia. Ma non era un po’ troppo presto?