(E. Sisti) Basta un tempo, il secondo, il preferito. La classifica e Garcia parlano chiaro. Non avendo il destino nelle nostre mani, sostiene a ragione il tecnico giallorosso, possiamo solo sperare che chi ci sta davanti commetta qualche errore, inciampi, si dimentichi di svegliarsi o entri nello stadio sbagliato, sarebbe auspicabile che almeno ci si affidasse ai piedi, alla testa e al cuore. La Roma non ha fretta ma esegue alla lettera. Il primo tempo di ieri sembrava uno dei classici primi tempi giallorossi di inizio stagione: placido, morbido, forse volutamente sottotono, agevolato da un Verona diverso, senza Jorginho. Il boa non stritola mai all’istante. Dopo qualche assaggio in accelerazione, cauto per carità, una svista di Donati nel recupero diventa la miccia che accende l’ancora non abbastanza esplorato potere devastatorio di Gervinho: scatto sulla sinistra, fulminante, cross corto, basso e mirato, Ljajic spinge in rete di collo esterno (procedura simile alle rete di Gervinho contro la Juventus in Coppa). Certi tagli lasciano ferite e fanno sanguinare. Il Verona, che aveva già perso Romulo in fase di spinta (era dovuto retrocedere per l’infortunio di Maietta), non aveva mai tirato in porta e forse non lo avrebbe mai fatto se al 4’ del secondo tempo Castan non avesse pasticciato sulla fascia costringendo l’intera squadra a una rotazione innaturale: a palla scoperta Hallfredsson colpisce da fuori area regalando l’imprevedibile parità. Per cinque minuti, con l’islandese in preda a una comprensibile esaltazione, il Verona ipotizza qualcosa di surreale vista la giornata: segnare un’altra volta. Ma era senz’attacco, di colpo la Roma sale di venti metri, Donati e Donadel smettono di respirare.
Il 2-1 di Gervinho (15’) prova che l’ivoriano è sempre meglio averlo dalla propria parte anche se ogni tanto è pur vero che va a sbattere contro i fili d’erba: controlla una scomoda palla calcio d’angolo, taglio bruciante verso il centro che trasforma Romulo e Iturbe in due inutili statute e sassata alla destra di Rafael. Assist e gol, della medesima natura. Meglio di così non si può. Dopo il punto di non ritorno marcato sulla mappa della partita da Gervinho, non c’è più un solo romanista (con Pjanic, Florenzi e poi anche Totti dentro) che non abbia a turno abbastanza spazio davanti a sé per rendere le gambe avversarie carne tremula. Il Verona, terza sconfitta consecutiva, vacilla tramortito sino al rigore segnato da Totti dopo il fallo di Gonzalez su Torosidis (37’). Pubblico indemoniato contro Mazzoleni ma senza forti e reali motivazioni: «Se l’Italia fosse Verona sareste tutti disoccupati», era la singolare tesi di un tifoso con la ragione a terra.
Ma oltre alla corsa inafferrabile di Gervinho, la Roma torna a vincere fuori casa dopo tre mesi perché Strootman è onnipresente, Maicon e Torosidis fanno le ali e i terzini e Benatia sbaglia due interventi all’anno.Si rivede l’anima collettiva, il senso dell’attesa, perché quando serve la squadra sa offrire velocità, furbizia e calma. La Roma ha morso il Verona quando, pur praticamente privo dell’apporto di Toni e Iturbe, nulli o poco più, aveva appena iniziato a coltivare l’arido campo dell’illusione. Si rimonta ragazzi? No. Si perde per la terza volta consecutiva. Troppa energia e compattezza ad orologeria per i giallorossi, troppo poca sostanza e concentrazione per Mandorlini. La Roma ha anche imparato a fare a meno di Totti (entrato per segnare il rigore del 3-1, il suo gol n. 232 e colpire una traversa) e di Pjanic. E il centrocampo dei muscolari continua a migliorare, se uno si sgancia, l’altro rincula, senza contare che Strootman, data la sua natura ubiqua, vagamente soprannaturale, è perfetto per una squadra che ha una partnership con la Walt Disney (come la Roma). Ieri, unica nota un po’ stonata, ha fatto a meno anche di Destro, l’unico nel secondo tempo, quando la Roma ha dominato, a non cantare la stessa canzone dei suoi compagni.