(M. Sconcerti) – Questa insofferenza dei tecnici alle domande dei giornalisti e ai troppi umori della piazza, comincia a diventare una moda da capire. Ora tocca a Garcia scoprire che il calcio in Italia è sempre troppo buono o troppo cattivo, non ha vie di mezzo. Naturalmente è gradito l’eccesso di bontà. È l’altra parte della medaglia che diventa subito un’ingiustizia. Nella fattispecie, Garcia aveva secondo me ragione. Gli hanno chiesto come si uscisse dalla crisi solo per aver perso due partite in sei mesi. E perché Benitez fosse la sua bestia nera avendo comunque Garcia, contro Benitez, vinto due partite su tre. Così Garcia si è stancato della banalità delle domande, come fosse Aristotele, e ne ha fatto una piccola guerra contro tutti.
Dov’è allora l’errore? È riparabile la distanza tra chi gioca, chi parla e chi racconta? Il problema del calcio è una gergalità che deve raccontare sempre qualcosa di epico, normalità zero. Metteteci anche che fino a dieci anni fa le domande le facevano in tre-quattro, mentre oggi sono qualche decina i giornalisti virtuali, e molti milioni i frequentatori di radio e social network che vogliono occuparsi di tutto. Ma l’argomento è lo stesso, solo stressato da un’importanza che non può avere, quindi si sfinisce e irrita. I tecnici si sono scolarizzati e spazientiti proprio quando il popolo dei media si è ingigantito, quindi disperso. Resta però un vecchio comandamento: dati i giornalisti per banali e data la gente per troppo volubile, nella vita è sempre stato compito dei molto bravi farsi carico degli imbecilli su cui si vive. È una legge di ridistribuzione che i grandi devono accettare, pena il tornare a essere come gli altri. E magari non diventare più giornalisti quando non si sa più allenare.