(M. Cecchini/A. Grandesso) – A decidere che domani contro l’Inter, in assenza di Totti, scenderà in campo con la fascia da capitano al braccio, non sarà una mera questione di presenze o di luogo di nascita. Daniele De Rossi, a suo modo, è la Roma. Modo discusso, discutibile, forse con qualche luogo comune, ma indiscutibilmente radicato nel cuore del giallo e del rosso. A rivelarlo è la lunga intervista concessa a «So Foot», in uscita oggi, in cui il centrocampista si racconta, cominciando dal rapporto profondo con Ostia dove è nato – prima dell’ «emigrazione» in centro (non facile a causa della sua fama) – fino al rapporto con Garcia. Cominciamo da qui.
«Ma chi è questo?» «Io non lo conoscevo – dice De Rossi – e ammetto che alla notizia del suo arrivo avevo avuto qualche dubbio. Avevo l’impressione che era stato preso perché non erano arrivati Allegri o Mazzarri, e quando ho digitato su Internet il suo nome la prima cosa che vedo è un video di lui con la sua chitarra che “Pompompero”. Allora dico: “Ma chi è questo tizio?”. Ora ringrazio Dio che lo abbiamo preso. Può essere una svolta nella storia della Roma, può farci vincere».
Lazio & Tifo De Rossi ribadisce il suo difficile rapporto con Zeman («Ma non gli ho mai mancato di rispetto, semplicemente non mi riteneva adatto al suo gioco»), il possibile addio estivo («Se l’offerta del Manchester United fosse arrivata prima…») , e il dolore per la sconfitta nella finale di Coppa Italia con la Lazio («È una ferita che non si rimarginerà mai»). Ma a proposito del tifo spiega: «Ho amici che insultano, diventano pazzi . Ma non sono mai stato così. Non me la sono mai presa con uno perché ha giocato male o perché ha cambiato squadra. Forse perché ho sempre saputo che era solo un lavoro. La Lazio? In partita mi insultano, ma lo trovo normale. In strada, però, nessuno mi ha mai mancato di rispetto. Se in campionato si finisce ottavi e loro decimi, si può respirare. Non si può capire se si vive altrove, ma se Roma avesse avuto solo una squadra , come Napoli o Parigi, allora la città avrebbe avuto la più grande tifoseria del mondo. Senza dubbio. Ed è ovvio che la squadra si sarebbe chiamata Roma… Qui c’è un amore enorme, ma se perdiamo le prossime tre partite 50, questo amore può rivoltarsi contro di noi, è un fuoco che può bruciare. Quanti luoghi così caldi ci sono in Europa? Molto pochi».
Lippi & Guardiola Il giallorosso, poi, racconta la sua passione da bambino («Alla prima partita guardavo solo le tribune e non il campo »), da raccattapalle («Emozioni come da calciatore») e da azzurro («Prima esisteva solo la Roma, quello per la Nazionale è un amore cresciuto nel tempo»). Il punto più alto, ovviamente, i rigori al Mondiale 2006 («Mi sarei vergognato non a sbagliare, ma a non calciarlo »), senza dimenticare la discussa dedica al suocero pregiudicato morto in un regolamento ci conti («Era solo un omaggio a una persona a cui ho voluto bene. E non mi sono mai pentito»). I titoli di coda sono su Guardiola e Lippi. «Pep era speciale. A Roma, non era nel suo mondo. Aveva una mentalità diversa. Gli italiani anche fra mille anni diranno che la cosa importante è sempre vincere, non giocare bene». Lippi di sicuro è un vincente. «Con me al Mondiale è stato meraviglioso, ma da romanista all’inizio non mi era simpatico. Sono andato a Roma per vedere la finale di Champions del 1996 control ‘Ajax e posso dirvi solo una cosa: non ero per la Juve». Proprio come adesso.