(R. Buffoni) – Palloni troppo difficili da parare, mentre in tv quell’uomo calvo i palloni più infuocati sembrava spegnerli con lo sguardo. Può nascere anche così la vocazione di arbitro. Lo è stato per Paolo Valeri: «Giocavo in porta con la Vigor Perconti, club della periferia est di Roma. Ma a 15 anni ho mollato e mi sono iscritto al corso per arbitri, spinto dall’ammirazione per Collina». Valeri di Roma 2 (la sezione di appartenenza) il 16 maggio compirà 36 anni. Lo incontriamo a Villa Spada sulla Salaria, centro sportivo delle Fiamme Gialle, dove si allena: «Proprio in questi giorni festeggio 20 anni da arbitro ».
Un hobby particolare: quanti ragazzi sono disposti a sacrificare i week-end in campi sperduti con la prospettiva, nel migliore dei casi, di venir ricoperti di insulti? «Ma io – spiega Valeri – sono sempre stato un tipo a cui piace decidere. Però non è stato facile arbitrare partite nei posti più reconditi, con la prospettiva di uscire scortato dai carabinieri». Il gusto di decidere. Sembra un motto copiato a Renzi: «Alt. Vado a votare, ma di politica non parlo ».
Fischia deciso Valeri, come quando gli chiediamo il nome della squadra del cuore: «Non glielo dirò mai». Da romano le indiziate maggiori sono due…: «Niente da fare. Le dico però che sarebbe un sogno arbitrare un Roma-Lazio. Forse succederà in un’altra vita… ». Troppo forte la cultura del sospetto nel nostro Paese. Soprattutto dopo Calciopoli: «È stato un capitolo nero per la storia dell’Associazione. Ricordo che quando esplose io ero ad arbitrare un play off di serie C ad Ancona. Mi insultarono per 90 minuti»
L’errore: unico compagno di viaggio dell’arbitro. «La nostra vita è come quella dei maratoneti: dobbiamo correre a lungo e da soli per arrivare. E in campo siamo sempre soli, anche oggi che tra guardalinee, arbitri di porta e IV uomo sembriamo una squadra. L’arbitro decide usando le percezioni che ha in campo, ma percezione e posizione sbagliata sono i genitori dell’errore che è sempre in agguato».
Valeri non ha dubbi nel raccontarne uno suo clamoroso: «Milan-Udinese del 3 febbraio dell’anno scorso. Una partita praticamente perfetta, rovinata dal rigore dato ai rossoneri nel recupero per un fallo su El Shaarawy che non c’era (segnò Balotelli e finì 2-1, ndr). Ci sono stato male perché della mia partita ottima non ne restò nulla. Come se un giocatore venisse giudicato per uno sbaglio nell’ultima azione. Ma ancor più male mi fecero le polemiche: volarono parole forti e da allora non ho più diretto i friulani. E pensare che il mio esordio in A fu proprio al Friuli (il 23 dicembre del 2007, 2-2 con l’Empoli, ndr)».
Ma fare l’arbitro non è solo sofferenza: «Ci si gode anche la partita: in un Samp-Juve ricordo un gol di Del Piero di rara bellezza». Ma che ne è della vita privata? «Dal 2009 sono sposato con Federica. Il matrimonio lo ha celebrato Don Mazza (ex cappellano delle squadre olimpiche, ndr). Per me è un padre spirituale che mi ha aiutato e mi aiuta a superare i momenti difficili. Io e Federica abbiamo un figlio di 4 anni. Lei è insegnante alle elementari e spesso è da sola a condurre le cose familiari. Per me è fondamentale poter contare su di lei». Ma non si arbitra per sempre: «Al futuro ci sto già pensando. Sono imprenditore nel settore food: ho un locale sull’Ostiense ». Ma primi piatti e contorni possono aspettare.