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ORA D’ARIA “Riflessione sparse” di Paolo Marcacci

Ora d’aria di Paolo Marcacci

Qui non si accettano lezioni né tantomeno prediche, soprattutto se il pulpito dal quale provengono non è all’altezza di essere considerato tale.

Senza entrare nel “dettaglio” dei cori contro Napoli inneggianti al Vesuvio (da stigmatizzare come e quanto un lancio di razzi da un settore all’altro, fisicamente più pericoloso) e delle inique – per la stragrande maggioranza di tifosi e abbonati incolpevoli – sanzioni comminate da Tosel, possiamo però affermare con certezza che la maggior parte di quelli che ieri hanno blaterato contro uno stadio intero, al solito generalizzando, non hanno titolo né autorità per parlare.

Il solito esercito di perbenisti cuffiati e microfonati, bordocampisti o seconde/terze voci che fossero, hanno iniziato, da subito, a scandalizzarsi con tono d’indignazione e voce schifata, al primo dei – deprecabili quanto si vuole – cori in questione. È proprio questa ostentata indignazione che stona: gente che da decenni bazzica a vario titolo attorno al calcio, che col calcio ha lucrato e guadagnato fama, dovrebbe almeno avere la cautela di risparmiarci banalità e ipocrisie, evitando di fare la figura di chi sembra sceso da Marte. Le brutture e le aberrazioni che affliggono l’italico pallone sono tante e tali che poi, paradossalmente, i suoi addetti ai lavori scelgono sempre come obiettivo critico il mondo dei tifosi, i suoi costumi e il suo – spesso discutibilissimo – folklore. È il loro modo di nascondere la cenere sotto il tappeto. Un coro di quel tipo su Napoli sarebbe meglio non sentirlo, ma non falsa le partite, non manovra i giornalisti né si lascia manovrare, non intrallazza e non specula.

Chi giudica dovrebbe avere la statura morale per farlo e chi partorisce norme dovrebbe evitare di precipitare nel ridicolo.

Lo hanno ribadito, per primi, sapete chi? I napoletani, gente sveglia, con lo striscione al San Paolo di qualche mese fa, in cui autodenigrandosi invitavano gli organi competenti a squalificare anche loro. C’era ironia, autoironia e, soprattutto, una presa di distanza da chi legifera sugli stadi senza conoscere il mondo che contengono.

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