(G. Toti) Ora è da Roma città che deve guardarsi la Roma di calcio, se domani vuole vedere realizzato il progetto del suo nuovo stadio, presentato ieri mattina in Campidoglio. Potrà sembrare un paradosso eppure solo chi è nato qui può conoscere fino in fondo quanto sia pericolosa l’infinita rete di lacci, tentacoli e sabbie mobili che ancora oggi asfissia la Capitale. La burocrazia spietata, la politica e i suoi ricatti, l’imprenditoria arraffona e indifferente al bene comune: questi restano i «mostri» con cui l’americano James Pallotta potrebbe (e sottolineiamo il condizionale, sperando di sbagliarci) essere costretto a fare i conti.
Ne seppe qualcosa Dino Viola, il più grande presidente della storia giallorossa, il primo a invocare e a immaginare un altro stadio a Roma, in netto anticipo sui tempi (come spesso gli succedeva anche su altre questioni). Da allora, certo, sono passati più o meno trent’anni: un’eternità.
Oggi, forse per la prima volta, la possibilità di vedere finalmente un nuovo impianto nella Capitale — un impianto moderno, funzionale, vivibile dalla collettività per tutta la settimana — è molto più che concreta, come pure dimostra il sostegno del Campidoglio. Ci auguriamo allora che le ambizioni di Pallotta e del suo management, la voglia di allargare i confini e di essere al passo con i migliori club europei, siano più forti di tutto e di tutti. C’è bisogno che sia la volta buona.