(M.Iaria) – C’è uno spettro che si aggira per l’Italia, in un misto di rabbia e disillusione, sul filo dell’equilibrio tra giuste proteste e derive intimidatorie. Da Nord a Sud è in atto un moto di ribellione da parte del pubblico del calcio, che in alcuni casi si cementa con le battaglie degli ultrà. Chiamatela pure tifo revolution. Al netto delle violenze che non hanno diritto di cittadinanza, negli ultimi tempi – e in particolare in questa stagione – sono state troppe le rimostranze per liquidarle come incidenti di percorso. È come se il grillismo che ha fatto breccia nell’antipolitica si stesse replicando nel mondo del pallone. Il calcio, d’altronde, non è forse lo specchio del Paese? La crisi del sistema è terreno fertile per l’indignazione. Mancate riforme, scandali, impianti invivibili, mismanagement societario, norme cervellotiche, austerity. Tutto questo ha creato due effetti: l’allontanamento dagli stadi (dall’euforia di Italia ’90, coi 34mila spettatori medi in Serie A nel 199192, si è scesi agli attuali 23mila) e la radicalizzazione del tifo.
Disamore e rabbia Insomma, c’è gente che si è disamorata e non segue più il calcio come prima: gli interessati sono calati dai 31 milioni del 2012 ai 25 milioni di quest’anno, secondo le indagini demoscopiche della Lega. Quelli che sono rimasti hanno sviluppato un forte malcontento fino a mettere in discussione le istituzioni e i dirigenti. La velocità di Internet e dei social network ha favorito la connessione con quel microcosmo che fino a poco tempo fa doveva accontentarsi di proteste di nicchia: gli ultrà. Dal clamoroso caso dello scambio GuarinVucinic, saltato anche per lo sdegno popolare che si è scatenato sulla sponda interista, al boicottaggio dell’Olimpico da parte di migliaia di laziali insofferenti nei confronti di Claudio Lotito, fino al tagliente comunicato con cui la curva sud del Milan ha messo nel mirino Adriano Galliani, è evidente il salto di qualità compiuto. Si fanno i conti in tasca alle società, si passa dal ruolo di tifosi a quello di sentinelle azionisti controllori. Non è un caso se tra i forum circoli sempre più spesso la cosiddetta controinformazione: proprio il modus operandi del Movimento 5 Stelle, che è nato dal blog di Beppe Grillo.
Tanti casi Il fenomeno si è diffuso anche lontano dalle grandi città. Basti pensare alla perenne contestazione, pure degenerata in minacce, al presidente del Bologna Albano Guaraldi, maturata non tanto per le sconfitte quanto per le scelte dirigenziali, ultima la cessione di Diamanti. Si protesta pure per il carobiglietti, come hanno fatto di recente a Verona. Ha dell’incredibile, poi, la massa di gente che, in B, ha cominciato a ripopolare il San Nicola una volta che i Matarrese sono usciti di scena dal Bari: punte di quasi 20 mila paganti, record per il campionato. Proprio le disavventure societarie, talvolta culminate in fallimento, hanno acceso gli animi. In questi anni di crisi, dalla geografia del calcio italiano sono scomparse piazze storiche. Quando si è ripartiti dai dilettanti, spesse volte si è rivelato fondamentale l’aiuto dei tifosi. Da Ancona a Piacenza a Taranto sono 14 i trust di tifosi in Italia, sul modello anglosassone della partecipazione attiva nella vita delle squadre del cuore.
Parla Albertini Da noi, probabilmente, non ci sarà mai un azionariato popolare stile Barcellona o un modello di governance come quello del Bayern, caratterizzato dalla regola tedesca del 50%+1 (la maggioranza del club in capo alle associazioni di tifosi). Ma sebbene i trust italiani siano realtà fortemente territoriali, c’è un filo conduttore che li unisce alle piazze d’élite: il desiderio di contare di più, la scarsa fiducia nei palazzi del potere. Spiega Demetrio Albertini, vice presidente della Federazione: «Hanno tolto alla gente la possibilità di sognare. La cosa più bella del calcio è il senso di appartenenza, ma ormai le squadre fanno notizia quando svolgono l’allenamento a porte aperte. Non si riesce a valorizzare la passione dei tifosi e spesso si confondono le curve col pubblico in generale. Il dialogo coi tifosi deve esserci, loro sono parte integrante di questo mondo. In questi anni si è pensato solo a suddividere i soldi delle tv, senza badare al prodotto e alla forza sociale del calcio, che non è solo business. I tifosi non ci credono più, si è creato uno scollamento con i propri beniamini».
Le società La Lega, perdendosi nelle battaglie del grano, fatica a mettere al centro il tifoso. Sono legittime le prese di posizione contro violenza e minacce, ma serve anche uno sforzo per dialogare con la parte sana. «Noi abbiamo grandissimo rispetto per le tifoserie, ma esigiamo lo stesso. Non sono ammissibili aggressioni, intimidazioni, o quei cori che fanno scattare le squalifiche. Siamo pronti a costituirci parte civile contro i responsabili», dice Maurizio Beretta, presidente della Lega di A. Chissà se la neonata commissione tecnica incaricata di sviluppare il progetto Più pubblico allo stadio, che proprio oggi si riunisce per la seconda volta, produrrà risultati utili o se il caos assembleare vanificherà tutto. Di sicuro, le società cominciano a interrogarsi su questo fenomeno, spiazzate dal mutamento di strategia non solo delle curve ma anche del pubblico più «borghese». Un dirigente di club d’alta classifica recita il mea culpa: «In questi anni la Lega, le società non hanno gestito bene il processo di comunicazione con i tifosi. Dall’avvento delle pay tv il tifoso ha smesso di essere centrale nelle politiche dei club. Bisogna capire che non si può fare calcio solamente in una logica imprenditoriale, ma anche interpretando i sentimenti della gente».