(S. Mannucci) Un buon motivo per non prendere un taxi nella Capitale è che, almeno in due casi su tre, ti ritrovi ostaggio della Setta dei Salomonidi. Quando la vettura è ripartita, ed è già troppo tardi per cercare scampo, scopri di essere finito nell’antro venefico di un autista che, smanettando su radio biancocelesti imposte al viaggiatore ad altissimo volume, sente il bisogno di convididere con lui le opinioni che il nostro Luigi, maestro di giornalismo dalla penna finissima e conoscitore di calcio come pochi altri, diffonde nell’etere cittadino.
Il problema della Setta è che si crede, e non da oggi, composta da figli di un Dio minore, reietti e perseguitati dalla prevalente fede giallorossa, che a dispetto di ogni evidenza si vorrebbe collusa con il Potere e il Palazzo. Da secoli ti fracassano i maroni con lo scudetto del Duce e quello di Andreotti, e in mancanza di trionfi propri cantano le virtù di quelli che hanno infranto i sogni dell’odiata Lupa: Barbas e Pasculli, Grobbelaar e via bestemmiando. L’altro ieri il mio amabilissimo collega, autore e custode di un calendario apocrifo, alternativo a quello di Santa Romana Chiesa, confidava in «San Pazzini», quel manigoldo che quattro anni fa realizzò una doppietta in una sventurata Roma-Samp che ci costò lo scudetto, e che in questo 25 aprile è invece poi rimasto a secco con la maglia rossonera.
Il laziale piagne da tempo immemore le «res gestae» che lui reputa sfavorevoli a sé e a propri alleati di comodo, e quando gli capita una giornata lieta te la rumina all’infinito, con gli occhi spiritati di chi vorrebbe che non facesse mai più notte. L’estate scorsa il popolo biancoceleste ha rivitalizzato l’agonizzante business del noleggio degli aeroplanini, dirottandoli sulle spiagge affollate di immalinconiti supporters romanisti. Solo che quella Coppa «alzata in faccia» è poi precipitata con uno schianto sulle speranze biancocelesti di ribadire il primato in campionato. E un anno più tardi, quei trenta e oltre punti di vantaggio in classifica creano tra i due rivali un senso di separatezza, una vertigine data forse dall’altitudine giallorossa, chissà: ma da qui guardi giù e dei laziali non senti più neppure l’eco allucinata a fondovalle.
Così, cosa resta ai membri della Setta, molti dei quali peraltro intenti a una guerra fratricida tra pro e antilotitiani? Baloccarsi con i presunti favori concessi alla «Roma Ladrona». Quali? Per esempio il gol di Gervinho ai rossoneri. Era fuorigioco, vero. Non semplicissimo a vedersi, però, visto che Er Tendina corre talmente veloce che quando lui è in area la sua ombra è ancora a centrocampo. E quello era il 2 a 0, dunque una rete tendenzialmente non decisiva. Nel postulato della «questione di centimetri», i punti sarebbero rimasti gli stessi anche annullando quella rete. Ma il laziale (che ora si impanca a difensore della Juve così come ai tempi della grande Inter invitava il suo Muslera a spostarsi per favorire lo scudetto nerazzurro) dimentica che, dati e registrazioni alla mano, gli osservatori neutrali notano che i punti regalati ai bianconeri sono ben più di quelli di cui ha beneficiato la Roma. Basti pensare ai due derby della Mole (gol irregolare di Pogba all’andata, fallo in area su El Kaddouri e mancata espulsione di Vidal nel ritorno); alla rete ingiustamente tolta a Paloschi nella partita col Chievo e a quella regolare ma negata a Diakitè in Juve-Fiorentina, o al rigore netto non fischiato al Parma allo Stadium. Per non parlare del caso Destro, con la condanna a mezzo tv del povero Mattia, mentre certi bianconeri giocano da incensurati quando meriterebbero i domiciliari per falli che andrebbero trasmessi su Fox Crime. Così che la Roma dei record, prima nella classifica «pulita», arriverà ancora una volta seconda, perché è impensabile che il Sassuolo si trasformi nel Bayern, e gli uomini di Conte si facciano poi venire il braccino.
Ma per il laziale è la Roma che ruba. Lasciamolo dire, da quassù non si sente niente. E neanche in città, se eviti certi taxi.