Un fratello maggiore. Un compagno leale, sempre corretto. Una persona introversa, ma buona come pochi. A 20 anni da quel 30 maggio 1994 in cui si uccise con un colpo di pistola sul terrazzo della sua villa, sul mare, a San Marco di Castellabate, in provincia di Salerno, l’affetto per Agostino Di Bartolomei e’ rimasto immutato nel tempo.
La sua storia, che e’ stata anche fonte d’ispirazione per un cantautore come Antonello Venditti, racconta di un campione andato oltre i limiti delle sue vittorie e della sua citta’, diventato icona dell’immaginario collettivo. D’altronde, chi lo ha vissuto negli spogliatoi e fuori non puo’ dimenticare quello sguardo serio e in fondo triste, i sui silenzi, l’eloquio essenziale e profondo.
E poi il suo incedere lento in mezzo al campo, il lancio illuminante, la botta secca da fuori area che cristallizzava il pallone. ‘Ago’ e’ un diminutivo che ancora oggi scorre sulla bocca della gente, di chi ha amato e apprezzato non solo il calcio ma le doti umane e sportive del capitano della Roma del secondo scudetto, che chiuse la carriera tra Milan, Cesena e Salernitana e che, fuori dal campo, era un grande amante dell’arte come testimonia la sua collezione di opere, fra gli altri, di De Chirico, Guttuso e Schifano.
E che, lasciato ai margini dal mondo del calcio anche per la sua integrita’, si tolse la vita a soli 39 anni, nel decennale della finale persa della Coppa dei Campioni. Tragico epilogo di una vita sempre controcorrente. Giocare semplice, raccomandava ai bambini ‘Ago’ nel suo quaderno di appunti di ‘scuola’ calcio pubblicati appena un paio d’anni fa dal figlio Luca.
E nel rispetto di questa semplicita’, la memoria di Bartolomei sara’ onorata dalla Roma venerdi’ prossimo, in occasione del ventennale della scomparsa, con una partita presso il centro sportivo ‘Fulvio Bernardini’ di Trigoria: non una parata di stelle, e neanche di vecchie glorie, piuttosto un’esibizione tra gli Esordienti della Roma (2002) e i 2001 del Cinecitta’ Bettini, societa’ appartenente all’Academy giallorossa; come a dire, il suo esempio non e’ riuscito a dare frutti nel calcio di oggi, e allora e’ bene tornare a seminarlo per quello di domani.
La partita si disputera’ sul campo intitolato nel febbraio del 2012 all’indimenticato ‘Dibba’, detto anche, ai suoi tempi, ‘il Platini di Tor Marancia’, e vedra’ sugli spalti anche la famiglia e il figlio Luca, lui che del padre ha riportato alla luce quel manuale del pallone, un inno al calcio pulito, al rispetto per le regole e all’etica del gioco. Come lo intendeva lui. “Agostino e’ stato il compagno con cui in assoluto ho giocato di piu’ in carriera visto che abbiamo condiviso il campo sia alla Roma sia il Milan’‘, ricorda Roberto Scarnecchia, ex ala vecchio stile e pupillo del barone Liedholm, cosi’ come a centrocampo lo era ‘Ago’ che Liddas difese dalle critiche di essere lento anche nel momento in cui lo trasformo’ in difensore dal lancio illuminante. ”Me lo ricordo ragazzo, ma e’ una magra consolazione perche’ un uomo del genere non meritava di andarsene via cosi’ presto. Non ha avuto nemmeno il tempo di farsi voler male dal mondo del calcio”. “A distanza di anni le domande sono ancora tante sul perche’ di quel gesto – aggiunge – aveva un carattere molto introverso, ma era buono come il pane, sempre pronto ad aiutarti se necessario. Per me e’ stato un fratello maggiore, scherzavamo spesso insieme”.
E tra i tanti aneddoti, uno trova spazio con piu’ forza nella memoria: “Mi ricordo che mio padre mi regalo’ un orologio, un Rado di quelli col vetro sagomato, e Ago mi disse: ‘vediamo se davvero e’ infrangibile’. Lo colpi’ con cucchiaio, rompendolo. Forse fu la prima volta che lo vidi ridere di gusto, ma subito dopo mi disse ‘tranquillo, te lo cambio io’ – confessa Scarnecchia – A 20 anni dalla sua scomparsa il ricordo e’ ancora forte, la sua e’ l’immagine di un uomo vero, di un capitano grandissimo e vincente”. Che a distanza di anni continua a vivere nella memoria di chi lo ha conosciuto. “Con Agostino ho vissuto la parte iniziale della sua carriera. Era un ragazzo introverso, dalla personalita’ complessa, ma molto buono – racconta Francesco Rocca, il Kawasaki della Roma anni ’70 – A prescindere dalla conclusione drammatica della sua storia ha avuto una grande carriera, fatta di successi e riconoscimenti, e per me e’ stato un compagno super corretto, sempre leale. Era una persona molto piu’ matura rispetto all’eta’ che aveva”. E forse anche in questo e’ racchiuso il mistero di un addio alla vita, ancora oggi inspiegabile.
Fonte: Ansa