(A. Catapano) – La stagione della caccia è iniziata. Chi metterà per primo le mani sui complici di Daniele De Santis? Chi stanerà quel gruppetto di ultrà che avrebbe organizzato l’imboscata (maldestra) ai napoletani e convinto il vecchio collega Gastone a fare da esca, lasciandolo poi solo come un cane in pasto alla furia rivale? Sulle quattro (o dieci?) ombre romaniste che hanno agito a Tor di Quinto alle spalle di De Santis, coperte da caschi integrali, dileguandosi a bordo di scooter appena capita la «malaparata », non sta indagando solo la polizia, ancora a caccia di nomi, facce, appartenenze, ruoli. Sono gli stessi ultrà romanisti a cercarli, da giorni. Su mandato dei capi della curva Sud, che si sono fatti un’idea precisa del pasticciaccio di una settimana fa e, probabilmente, pure di chi lo ha commesso. Non si tratterebbe di semplici e incontrollabili «cani sciolti» né di vecchi arnesi da stadio ormai fuori dal giro come De Santis, ma di elementi in qualche modo riconducibili a gruppi della tifoseria romanista. Perciò, se è stato davvero un piano premeditato, chi lo ha ideato – e per quale motivo, scalare posizioni nella leadership della tifoseria romanista? – si è macchiato di due peccati mortali, che violano il «codice deontologico» degli ultrà: tradimento e vigliaccheria. Avrebbe organizzato l’agguato all’insaputa dei leader, che pure se non riconosciuti vanno sempre informati di fatti tanto eclatanti, e avrebbe abbandonato un «compagno di battaglia» sul campo, mostrando viltà. Se queste «accuse» fossero confermate, quei quattro o dieci o quanti erano effettivamente, «se e quando cadranno nelle mani dei compagni, saranno crepati », come spiega testualmente una fonte investigativa.
E ora? Fa impressione constatarlo, ma per gli ultrà della Roma in questo momento il problema principale non è De Santis né il fatto che un «normale» corpo a corpo sia sfociato in una sparatoria, eventualità prevista nella delinquenza comune, ma inconcepibile in quella da stadio. Gastone ha sparato perché «era da solo contro cento», dicono. Perciò, oggi pomeriggio non aspettatevi striscioni di solidarietà a Ciro Esposito, il tifoso del Napoli ancora ricoverato al Gemelli in prognosi riservata, almeno non nelle curve dell’Olimpico. Piuttosto, qualcuno in quei settori potrebbe esibire i vessilli azzurri strappati otto giorni fa ai napoletani negli scontri di Ponte Milvio, stratagemma confezionato ad arte per tenere le forze dell’ordine lontane dall’agguato di Tor di Quinto. Il problema dei romanisti, adesso, è come gestire tutta la vicenda, internamente e agli occhi degli altri ultrà italiani. Farla propria? Impensabile. Prenderne ufficialmente le distanze? Inconcepibile. Fare come se nulla fosse? Impossibile. Lo dimostra quanto (non) accaduto a Catania: gli ultrà della Roma avevano organizzato la trasferta, avrebbero dovuto viaggiare nella notte tra sabato e domenica, ma il pasticciaccio di Tor di Quinto e l’ipotesi che per vendetta i napoletani tendessero loro un agguato sulla strada, li ha fatti desistere.
Gli occhi di tutti Sarebbe stato molto meglio se De Santis – che, secondo Luigi Proietti, gestore del bar del circolo sportivo Trifoglio a Tor di Quinto, sabato è intervenuto «solo dopo aver sentito i botti delle bombe» – avesse agito da solo. La questione, a questo punto, sarebbe già stata liquidata come il gesto di un pazzo fuori controllo, da tempo allontanato dallo stadio, dunque non «accollabile» alla leadership attuale. La questione, invece, riguarda i romanisti. Gli ultrà di tutta Italia li stanno guardando e, purtroppo, aspettando. Non ce ne libereremo mai.