(G. Giubilo) Dodici mesi, un anniversario importante. Ma non ci sono candeline da spegnere, torte da tagliare, calici da levare in alto. Un anno fa i giocatori della Lazio sollevavano la Coppa Italia, avevano vinto la finale più attesa e più sentita, livelli emozionali altissimi. Perché a contenderle il trofeo c’era la rivale istituzionale, la Roma. E perché il trionfo arrivava a chiudere una vigilia tormentata, che aveva cancellato tutti i canoni previsti dallo sport.
Ma è un anniversario che va celebrato: non dai vincitori, la loro provvista di entusiasmo e di fiducia nel futuro si era esaurita troppo presto, ma dalla schiera dei vinti, perché quel 26 maggio avrebbe capovolto la storia del football capitolino, autentica rivoluzione dei valori, delle prospettive, soprattutto delle dimensioni delle due formazioni.
Sarà bene ricordarlo, conoscendo quanto corta sia la memoria della gente, soprattutto di quella che avrebbe visto presi a sberleffi i suoi malumori e le sue pretese di squallido protagonismo. L’aveva vissuto male, la Roma di Andreazzoli, quell’approccio a una partita sovradimensionata senza motivo, se non la comune presa di coscienza di una mediocrità, accettata come male minore, una volta che in campionato il traguardo più ambito restava un posticino nell’Europa dei poveri. Traguardo che entrambe le sponde del Tevere avrebbero sospirato invano.
Era parsa più vicina a tagliarlo la Lazio, che alla resa dei conti sarebbe finita addirittura alle spalle dei cugini, sia pure per un solo punto.
Ma per tornare a quella vigilia allucinante, restano le immagini a documentarne la barbarie. Tanti striscioni, pezzi di tela tutti delle stesse dimensioni, scritte infami vergate con la stessa vernice azzurra, una produzione industriale in grande stile, alla faccia del tifo spontaneo e della passione autentica. Un attacco proditorio a società, staff tecnico, calciatori.
Vedere scritte del tipo «Vincitori o morti» è qualcosa di raccapricciante, toni che non appartengono all’ironia tradizionale dei romani. Ogni sorta di volgarità esibita quotidianamente fuori dai cancelli di Trigoria, qualcuno di quei buffoni era stato perfino ammesso all’interno del centro sportivo, nonostante le offese distribuite contro Walter Sabatini, degli anatemi per Miralem Pjanic, reo di avere abbracciato il suo compagno di Nazionale Lulic.
Proprio il bosniaco aveva risolto quel derby, ma le celebrazioni laziali erano state comunque misurate, senza mai scadere nelle contumelie più becere. Quelle erano lasciate ai presunti tifosi romanisti, punta massima degli sfottò, legittimi, gli striscioni sventolati dagli aerei sopra le spiagge per ricordare l’evento. A un anno, la Roma dei romanisti veri può ricordare quella data infausta come una svolta storica: per il complessivo bilancio di stagione, ma anche per la rivalità cittadina: secondo posto contro il nono, ventinove punti di distacco in classifica, Champions League diretta, uno stadio di proprietà in sala parto.
All’avvio della stagione, la Lazio aveva modificato poco, rispetto all’organico che aveva alzato la Coppa: anche se Petkovic aveva staccato la spina ed Hernanes era pronto al divorzio. La Roma aveva avviato la rinascita dal primo giorno di ritiro, quando i contestatori prezzolati erano stati respinti con perdite da Rudi Garcia, da quel momento padrone dello spogliatoio e guida illuminata per vecchi e nuovi.
Dei reduci della sfortunata finale sono rimasti in pochi: Balzaretti, che avrebbe consumato la sua rivincita nel derby, gli eterni Totti e De Rossi, Castan, Destro e la riserva Lobont, oltre a Pjanic che era stato relegato in panchina, forse per non turbare quelli che avevano espresso ignobile rancore nei suoi confronti. Tanti sono andati via, in omaggio a una ragionevole politica economica, Marquinhos e Lamela i pezzi pregiati, ma anche Bradley e nel tempo Osvaldo, Burdisso, Marquinho.
Vuoti che Walter Sabatini, quello ingiuriato dalla schiera di imbecilli confezionatori di striscioni, ha provveduto a colmare con sapienza, da Strootman a Maicon, a Nainggolan, a De Sanctis, alla gazzella nera Gervinho, soprattutto a quel Benatia che è diventato un gioiello prezioso. Benedetto quel 26 maggio.