(S. Vernazza) Emblematica scenetta ieri mattina al Maracana: un gruppo di persone, non più di venti-trenta, ha bloccato per circa mezz’ora l’uscita dal Centro accrediti. Mini-protesta a base di insulti e minacce per una promessa non mantenuta. Questi uomini hanno lavorato alla messa a punto del mitico stadio di Rio e dovrebbero essere pagati con compensi integrati da biglietti per le partite della Coppa del Mondo. Condizionale d’obbligo, perché fin qui di salari e di ingressipremio non ne hanno ricevuti. A pensarci bene, nel suo piccolo, è una storia romantica e disperata. Si sgobba per realizzare il sogno di vedere dal vivo un incontro del Mondiale o per rivendere i biglietti e mangiare meglio per qualche giorno. Si potrebbe aggiungere che è il ritorno a una primitiva economia di scambio – io do una cosa a te e tu ne dai un’altra a me -, ma lasciamo perdere i discorsi sulla perdita di valore del lavoro e sulla liceità di certi «contratti» al confine con lo schiavismo, non è questa la sede. Qui preme rilevare il rapporto dei brasiliani col calcio, che al fondo non è cambiato. Le spiagge sono piene di gente d’ogni età che gioca a “futevoley”, i bambini delle favelas si divertono col pallone. Il Brasile continua ad amare il calcio.
Anzi, il Brasile è il calcio. Certi campi di periferia sono commoventi. Strutture scalcinate, scalcagnate e scrostate, però ricolme di talenti. A Rio e dintorni osservare il palleggio di un bambino riconcilia con lo spirito di questo sport, che di base resta un gioco.
I brasiliani però hanno capito che il Mondiale è un’opportunità per far sapere al mondo che nel Paese decine di milioni di persone vivono in povertà o poco al di sopra della soglia della miseria. Sanità e istruzione sono robe da ricchi. Ci si cura bene e si studia bene se si hanno i soldi per rivolgersi a ospedali e scuole private. Altrimenti bisogna avere fortuna o confidare nella carità delle tante organizzazioni che si sbattono da mattina a sera per alleviare le sofferenze degli indigenti. Questa massa di milioni di abitanti delle favelas e dei bairros populares userà il Mondiale e l’Olimpiade del 2016 per amplificare rivendicazioni e rabbia. Condannarli a prescindere non è giusto, è probabile che se fossimo al loro posto ci comporteremmo allo stesso modo.
Tra le fila dei manifestanti si muovono degli agitatori professionali, specie di “black bloc” alla sudamericana, ma la contestazione in sé poggia su legittime basi sociali. Chi manifesta e chi smanetta sui social chiede la redistribuzione della ricchezza nazionale, però “o futebol” rimane “o futebol”, qualcosa di connaturato, sacro e indispensabile. Fuori dagli stadi sarà forse un Mondiale agitato, ma è difficile che la protesta arrivi dentro gli stadi. Un po’ per le imponenti misure di sicurezza e un po’ perché in Brasile il calcio è nei cromosomi, nell’anima e nell’aria, e ai 90 minuti della partita è impossibile resistere, come dimostra il manipolo di arrabbiati del Maracana. In Europa chi accetterebbe di sgobbare in cambio di un biglietto?