(A. De Calò) Il mondo spalanca gli occhi sul calcio degli Azzurri – nel resto del pianeta li chiamano come noi – e attraverso lo specchio della foresta amazzonica ci restituisce un profilo della Nazionale improvvisamente più bello, più grande e seducente di quello che noi italiani avevamo osato disegnare. Che vertigine. L’effetto del Mondiale è anche questo. Mette assieme, sincronicamente, una serie di eventi simili con ingredienti diversi, in una situazione ambientale complessa: e, dopo aver ben shakerato il tutto, ti rovescia addosso la semplicità dell’effetto finale. Spiazzante. L’altra notte eravamo così turbati per le vaghe interdizioni di Paletta, e ipnotizzati dai movimenti panterati del Balo, che non ci siamo accorti — subito — di essere davanti alla più bella partita del Mondiale giocata finora in Brasile.
Complimenti anche all’Inghilterra, naturalmente: quello che viene fuori è un inno all’epica del calcio, allo spettacolo, alle emozioni, al bel gioco fatto vedere nonostante le condizioni climatiche estreme. Ce lo dicono i critici dei media spagnoli, gli inglesi, quelli di altri paesi europei e latinoamericani, abituati a liquidare di solito in modo abbastanza spietato i limiti delle nostre squadre.
Il merito, in buona parte, è di Cesare Prandelli. Il suo lavoro sulla Nazionale ricorda quello di Fulvio Bernardini guru della rifondazione azzurra a metà degli anni Settanta. Il Fufo era stato chiamato per ricostruire la squadra sulle macerie del Mondiale tedesco e aveva puntato su un plotone di giovani con i piedi buoni per dare il cambio alla gloriosa e stanca generazione dei Rivera, Mazzola e Riva. Piedi buoni, gran movimento, costruzione del gioco con passaggi corti.
L’Olanda di Cruijff e Neeskens stava dettando la nuova agenda del calcio, Bernardini annusava quel vento, lavorando in tandem con Enzo Bearzot. Dopo qualche tempo, Bearzot era rimasto solo sulla plancia di comando, cominciando su questa spinta la sua scalata mondiale. Il successo dell’altra notte a Manaus – per chi se lo ricorda – richiama qualcosa del debutto contro la Francia in Argentina 1978 (al di là del 2-1 sul campo). Il richiamo vale per la personalità e la qualità del gioco che resta il migliore espresso dagli azzurri in un torneo mondiale nel dopoguerra. Anche allora non ce l’aspettavamo così bella l’Italia, così padrona della situazione, così rotonda anche quando doveva attaccare. E questo aveva acceso stupore e orgoglio. Proprio come succede adesso. Nessuno, nel mondo, ha mai messo in dubbio la capacità di competere dell’Italia. E’ un must. Anche nei momenti più bui, gli azzurri sono stati trattati come un avversario da evitare: noioso, catenacciaro, velenoso in contropiede. Avversario da evitare, dunque, ma non da imitare e prendere ad esempio per la qualità del calcio prodotto.
Con Prandelli molto è cambiato. Sulla spinta della scuola spagnola, il citì è tornato a percorrere il solco dei piedi buoni; ha esaltato le straordinarie qualità di Andrea Pirlo, circondandolo di gente capace di dialogare con il suo genio. In Italia siamo un po’ assuefatti alla bravura di Pirlo: nel mondo, appena lo vedono all’opera, continuano a stupirsi e a classificarlo tra i grandi. Il Brasile, l’Argentina e l’Olanda sarebbero degli squadroni super se potessero contare su un play del suo livello. Invece Pirlo è azzurro e attorno alle sue ispirazioni l’Italia può girare, crescere, giocare bene e andare avanti. La bellezza, se funziona, ha una sua poetica. Il resto del mondo se n’è accorto. C’è bisogno di un buon esempio da imitare